Morte di Béatrice Uria-Monzon, Carmen orfana della sua modernità

Sarebbe ingiusto ridurre Béatrice Uria-Monzon alla sua Carmen, nonostante l'abbia cantata centinaia di volte. Perché passare in pochi anni da Cherubino, da Le nozze di Figaro, un mezzosoprano mozartiano, a Tosca, il personaggio della cantante nell'omonima opera di Puccini, che richiede una voce da soprano drammatico, è ben più impressionante. Resta il fatto che la zingara di Bizet rimane, a giudicare dalle statistiche, l'eroina più popolare nella storia dell'opera, e la nativa di Agen non l'ha solo incarnata. L'ha reinventata, sottraendola al folklore e al cliché del lupo sensuale per farne una donna libera che vuole rimescolare le carte dell'amore, imporre più intelligenza e saggezza nei rapporti tra uomini e donne, e che muore per questo. Tutto questo è stato un merito per lei, e un po' inquietante; la sontuosità del suo timbro bruno ardente, dai medi insolentemente carnosi agli acuti che irradiano armonici, senza peraltro giustificare la dizione ricercata, l'intonazione non sempre stabile e le libertà metriche che ancora macchiavano la sua interpretazione al Théâtre Antique d'Orange nel 1998. Difetti che avrebbe poi cancellato, guadagnando le note gravi che le mancavano. La sua Carmen era quindi un work in progress, come dicono gli anglosassoni. Lo "cercò" per tutta la vita.
Beatrice Uria-Monzon si è cimentata anche in decine di altri ruoli, dalla principessa Eboli nel Don Carlo di Verdi ad Adalgisa in N
Libération