Il tempo di viaggio è pagato dal datore di lavoro: la sentenza

Malintesi ed equivoci non sono mai un buon ingrediente per una proficua prosecuzione del rapporto di lavoro. Il dipendente ha ovviamente diritto a essere retribuito così come previsto nel suo contratto individuale, ma al contempo può essere destinatario di ulteriori compensi non legati direttamente a una mansione. Lo ha spiegato la Cassazione con una sentenza dell’anno scorso, la cui portata è attualissima proprio per le precisazioni che ha offerto ad aziende e dipendenti.
Il tempo di viaggio va stipendiato e calcolato in busta paga. Perciò il dipendente che usando la vettura aziendale-si sposta dalla sede di lavoro al luogo in cui andrà a svolgere la prestazione, può rivendicare in giudizio quanto spettante – qualora l’azienda non versi tutto il dovuto. Vediamo allora la decisione 16674/2024 e chiariamo tutti i diritti a favore del lavoratore.
Il caso deciso dalla Suprema Corte è simile a tantissimi altri.
Alcuni tecnici in servizio presso una Spa e addetti on field agli interventi di installazione e manutenzione presso le abitazioni e i locali dei clienti esterni, si erano rivolti alla magistratura per ottenere il pagamento della retribuzione relativa alla totalità del tempo di viaggio, necessario per recarsi dalla sede dell’azienda al domicilio del primo cliente la mattina, e per ritornare alla stessa sede dopo l’ultimo intervento la sera.
In particolare, nel bersaglio dei lavoratori era finito un accordo sindacale aziendale con cui il datore (nell’ambito di un una ristrutturazione dell’orario lavorativo) aveva imposto che esclusivamente i tempi superiori a 30 minuti complessivi (15 andata e 15 ritorno) sarebbero stati pagati. Il tempo di viaggio doveva essere verificato grazie alla geolocalizzazione dell’automezzo aziendale.
In primo grado il tribunale, in funzione di giudice del lavoro, rigettava la domanda. In seguito l’impugnazione della decisione da parte dei dipendenti, ha portato a un esito meno sfavorevole, pur negando comunque la condanna al pagamento delle differenze retributive. Ne è così conseguito il ricorso in Cassazione da parte dei tecnici manutentori.
I punti chiave della decisione della CassazioneRichiamando l’orientamento giurisprudenziale in materia (Cass. n. 37286/2021), la Suprema Corte ha chiuso la vicenda dando sostanzialmente ragione a coloro che avevano contestato il mancato conteggio delle ore di viaggio nel tempo di lavoro.
In particolare, i giudici di piazza Cavour hanno rimarcato che:
- il tempo preparatorio della prestazione rientra nell’orario di lavoro, se le relative operazioni si svolgono sotto la direzione e il controllo del datore;
- nel caso di personale addetto agli interventi presso i clienti, è incluso nel concetto di orario tutto il lasso temporale tra l’arrivo in sede aziendale, per prelevare le attrezzature necessarie e per ricevere le disposizioni datoriali, e il ritorno serale;
- sono nulli tutti gli accordi collettivi che prevedano una franchigia temporale, ossia un tetto massimo entro il quale è posto a carico dei lavoratori il tempo necessario per il trasferimento dal luogo di ricovero della vettura aziendale a quello del primo intervento, nonché, alla fine della giornata lavorativa, per il percorso inverso.
Quest’ultimo punto è particolarmente interessante.
La citata la clausola dell’accordo aziendale è da ritenersi nulla perché vìola l’art. 1 comma 2 lettera a) del d. lgs. 66/2003, secondo cui è parte del tempo di lavoro ed è retribuito ogni momento in cui il dipendente è a disposizione del datore nello svolgimento delle sue mansioni, compreso il tempo dello spostamento da un luogo all’altro.
La Cassazione ha così chiarito che, se il lavoratore è tenuto a prendere l’automezzo aziendale in sede, allora il tempo stipendiato parte da quando giunge in azienda per iniziare gli spostamenti geolocalizzati e previsti dallo stesso datore. Conseguentemente, come ha specificato la Cassazione nella sentenza n. 16674, il tempo di viaggio:
Che cosa cambiaÈ certamente da retribuire, in omaggio al principio di corrispettività delle prestazioni.
La sentenza che abbiamo visto sopra è di estrema importanza per tutte le aziende e dipendenti perché ci ricorda che il tempo di viaggio non è libero o “perso”. Essendo funzionale alla prestazione lavorativa va retribuito anch’esso in busta paga.
Per legge, l’orario di lavoro è il periodo in cui l’assunto è e resta a disposizione del datore, sotto il suo controllo, e pronto a eseguire direttive e mansioni.
Non ci sono differenze tra tecnici manutentori, operai trasfertisti o montatori esterni, installatori di impianti di sicurezza, tecnici informatici on site, tecnici sanitari oppure addetti all’assistenza tecnica post-vendita: l’eterodirezione, ossia il vincolo alle istruzioni del capo, comporta il calcolo del tempo di lavoro.
E anche chi viaggia per ragioni di lavoro va pagato per le ore del tragitto. In termini pratici, se l’azienda dice dove andare, quando e con quali attrezzi, il dipendente non è libero e lavora anche se sta guidando in autostrada.
Non solo. La legge vale al di sopra di qualsiasi contrastante accordo sindacale. Perciò anche se il testo interno è stato firmato, e c’è concordanza su tutti i punti, non può ridurre diritti stabiliti dalla legge. E se lo fa, è cancellato e sostituito in automatico dall’applicazione integrale della norma di legge.
Come già il cosiddetto tempo tuta (cioè il tempo utilizzato per il cambio di abbigliamento sul lavoro), in conclusione, va sempre ricompreso nell’orario di lavoro il tempo che il lavoratore usa per recarsi dalla sede aziendale al luogo d’intervento e per rientrare in azienda, una volta terminate le mansioni presso i clienti esterni.
Se il datore non paga anche il tempo di viaggio, è possibile tutelarsi in tribunale.
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