La verità, in pratica


Nikolaj Ge, “Che cos’è la verità? Cristo e Pilato”, 1890, olio su tela (Foto di The Print Collector/Getty Images)
Quid est veritas? /1
Il concetto che svela il nucleo incandescente della relazione fra uomo e mondo, la linea che separa Gesù da Ponzio Pilato. Scettici post moderni, questi articoli sulla verità sono per voi. Puntata numero uno
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Inizia con l’introduzione di Michele Silenzi la serie estiva del Foglio dedicata alla verità. Ogni settimana un autore diverso si occuperà di osservare questo concetto fondamentale dal punto di vista di una specifica disciplina: giurisprudenza, matematica, astrofisica, economia, politica, informazione, teologia.
“Quid est veritas?”, che cos’è la verità? Questo interrogativo, tra i più celebri della storia umana, viene pronunciato da Ponzio Pilato rivolgendosi a Gesù. Il Cristo rimane silente dinanzi a tale domanda, non fornisce risposta perché risposta l’aveva già data in un enigma accecante come la piena luce del giorno: “Io sono la via, la verità e la vita”. Io sono la verità, ossia il verbo che si fa carne: la presenza, la manifestazione diretta di ciò su cui altrimenti non si potrebbe fare altro che tacere (come avrebbe suggerito Wittgenstein duemila anni dopo).
Tra la ragionevole domanda scettica di Pilato e l’enigmatica affermazione di Gesù si gioca l’intera partita attorno a cui ruota un’interrogazione su questo termine totalizzante e allo stesso tempo interamente svilito, “verità”, che però fa tutt’uno con la nostra relazione con il mondo. Eppure, dicendo verità, siamo ancora nella stessa situazione di Pilato. Che cos’è? Possiamo cercare una definizione stabile di questo concetto? Oppure esso non è altro che la parola-guida che deve accompagnarci nella sua ricerca costante e inesausta? O, ancora, è un termine sostanzialmente privo di senso?
In filosofia, quella che viene chiamata “storia della metafisica” potrebbe anche essere definita come una storia della ricerca della verità, ossia di qualcosa di certo oltre ogni dubbio, su cui poter fondare in modo definitivo l’intero apparato del nostro sapere e, perché no, anche della nostra salvezza.
La scorsa estate questo giornale ha promosso una serie di articoli filosofici che riflettevano attorno al tema della metafisica, concetto ormai desueto eppure fondamentale per comprendere l’intero percorso della storia occidentale. Quest’anno abbiamo creduto interessante proporre una serie ancora più radicale andando direttamente alla fonte dello spirito di ricerca che caratterizza l’umano. Tale fonte è custodita nella parola verità (nella sua presenza, nella sua assenza, nella sua possibilità).

Gli interventi spazieranno attraverso discipline diverse che, in forme differenti, hanno a che fare con la ricerca della verità per tentare di capire se vi è un minimo comune denominatore che si possa definire “la Verità” o se invece non si possa far altro che tentare di approssimarla, di avvicinarvisi, secondo le più diverse strade. Occorre però chiarire un fatto determinante, semplice e che pure spesso si perde di vista. La ricerca della verità determina, sostanzialmente, tutti gli ambiti di ricerca dell’umano. In questa serie proveremo a osservarla attraverso la giurisprudenza, la matematica, l’astrofisica, l’economia, la politica, l’informazione, la teologia. Questo articolo tenta di fornire una piccola cornice introduttiva alla serie.
Non vi è ambito dell’umano che non intrecci in qualche modo la propria strada, in maniera più o meno consapevole, con la ricerca della verità. Possiamo dire che la verità è inerente all’intera esistenza di ciascuna persona, è ciò che più ci riguarda: la verità su di sé, sui propri gusti, su ciò che si vuole, su ciò che c’è nella vita e, eventualmente, dopo di essa, sul senso di quello che facciamo. Ovviamente la domanda attorno alla verità non inizia con Pilato ma molto tempo prima. Inizia infatti nello stesso momento in cui un individuo autocosciente ha iniziato a porre domande su cosa è il mondo che lo circonda. Si può dire, ragionando per esclusione, come è inevitabile fare quando si trattano temi in apparenza così astratti (che in realtà sono però i più concreti perché ineriscono alla nostra relazione con il mondo), che cosa non si intende qui per verità. La verità non è l’oggettualità/oggettività. Ossia è reale e oggettivo che l’acqua è composta di idrogeno e ossigeno, che i corpi sono pesanti, che il sole emette radiazioni. Tutto ciò è accertabile, riscontrabile, sperimentabile. E’ così e non altrimenti. Afferisce a caratteristiche quantificabili di oggetti reali.
La verità, invece, come qui si tenta di provare a comprendere, è qualcosa che ha a che fare con l’uomo, con la sua conoscenza del mondo, con il suo operare su di esso, insieme ad esso, “contro” di esso. In tale prospettiva, la verità è il disvelamento del nucleo essenziale e incandescente della relazione tra uomo e mondo. Come scrive il grande Kojève: “Senza l’uomo l’essere sarebbe muto: ci sarebbe ma non sarebbe il vero”.
Dovrebbe risultare chiaro, quindi, che la ricerca della verità, essendo un evento interamente umano, è sempre un accadere storico, perché tutto ciò che l’uomo fa genera storia. Ciò significa che tale ricerca non avviene nello stesso modo attraverso i secoli e i millenni, ma si accompagna alle condizioni storiche in cui via via l’uomo viene a trovarsi. In questo modo, la storia della ricerca della verità è tutt’uno con la storia della civilizzazione. La verità quindi non è un fatto, ossia qualcosa di definito che ci si consegna e di cui possiamo parlare in maniera chiara e distinta. La verità non è neppure un detto, un enunciato. Come già visto, Gesù dice di sé “io sono la via, la verità e la vita”, ma dinanzi alla domanda “analitica” di Pilato resta silente. E’ infatti la sua esistenza storica, la storicità della propria manifestazione (la sua vita), ciò che egli identifica come la rivelazione, come la verità, come la via da seguire.
Staccandoci dal cristianesimo per rivolgerci a buona parte del pensiero occidentale, che è pur sempre formato in continuità o in contrapposizione al messaggio cristiano, potremmo dire che “la verità è un processo”, ossia è la totalità sempre cangiante, e in sviluppo, degli eventi del mondo in cui l’uomo diviene sempre più protagonista e autocosciente. Questa totalità costituisce la “storia della verità”, della sua ricerca e della sua manifestazione. La verità quindi non sarebbe una quantificazione, una catalogazione infinitamente precisa delle cose. Non la si raggiunge per accumulo quantitativo di dati, ma è azione sulle cose del mondo, sugli enti, per usare un linguaggio filosofico, per portarli a mostrarci ciò che “effettivamente sono”. Si tratta però di un processo alla cieca, a tentoni, in cui si cerca senza sapere cosa si cerca. Si scopre operando.
Questo concetto, che appare piuttosto astratto, diviene abbastanza evidente se pensiamo alla nostra vita, alla vita di ciascuno. La nostra vita è infatti, per ognuno di noi, ciò che vi è di più reale e concreto. Eppure possiamo dirla compiuta e realizzata (indipendentemente dall’esito positivo o negativo), ossia divenuta propriamente se stessa, solo quando può essere vista nella sua interezza, nella sua totalità, cioè una volta terminata, come il risultato di un processo che non ha fine se non nella propria fine. Allo stesso tempo, però, ogni momento della vita, mentre lo si vive, è vero in sé, nella sua specifica determinatezza, ma assume il suo senso complessivo solo all’interno di una vita intera. Che, però, per dirsi davvero realizzata, dovrà essersi realizzata in libertà.
Provando ad abbozzare una prima definizione di quanto ci interessa, potremmo dire che ogni ente, tutto ciò che esiste, ha la propria verità nella manifestazione della propria potenza, ossia di ciò che può essere. Manifestando storicamente la propria potenza, o se vogliamo il proprio potenziale, ogni ente diviene ciò che è, mostra la propria verità. Ma tale manifestazione di sé non è altro che azione. La verità quindi si mostra come una pratica, o meglio, la verità si raggiunge solo attraverso una pratica di liberazione (la fondamentale relazione con la libertà!) della propria potenza. In questo modo si comprende anche (sebbene la cosa necessiti di ben altro approfondimento) la stretta relazione che vi è tra verità e libertà.
Qui, tuttavia, è sufficiente dire che nella necessaria connessione tra verità e libertà si mostra l’irriducibilità della verità a quantificazione. Se, infatti, l’intero potenziale degli enti fosse calcolabile e verificabile non ci sarebbe spazio per l’evento, per l’imprevisto, per la scelta, per l’azione. Tutto sarebbe semplicemente ridotto a un dispiegamento enorme di variabili combinate e risolte da un’enorme potenza di calcolo. Ogni cosa sarebbe prevista e prevedibile, e quindi non vi sarebbe più evento ma solo fatti noti ed enunciabili.
Ciò non deve però in alcun modo significare un rinnegamento delle scienze quantitative. Tutto il contrario! Attraverso la matematica sappiamo, infatti, che il mondo ci risponde, che possiamo capirne la struttura fisica. Einstein, come molti altri nel corso della storia, si chiede come è possibile che la matematica, essendo dopotutto un prodotto del pensiero umano, sia così mirabilmente appropriata per indagare il mondo fisico, gli oggetti della realtà. E la risposta sta nel fatto che vi è corrispondenza tra pensiero ed essere, che ciò che il mondo è risponde alla nostra azione, al nostro operare. Ancora Einstein con la sua formula E=mc2 non ci dice altro che la materia è energia pronta per essere trasformata per sprigionare il proprio potenziale, la propria potenza, la propria verità.
Come ormai dovrebbe risultare evidente, in questa prospettiva il discorso sulla verità non è altro che un discorso sull’uomo. E’ infatti l’uomo a tirare fuori la verità dal suo nascondimento, per dirla con Heidegger, anche se sarebbe più corretto dire che attraverso il proprio operare l’uomo realizza la verità, la rende possibile. In tal senso, l’uomo che agisce liberamente è la condizione di possibilità della verità. La verità, infatti, può essere pensata storicamente solo attraverso gli individui (e non attraverso il mitologico “uomo in generale”) che nelle varie epoche la determinano, la pensano, e cercano di realizzarla secondo i modi specifici dell’epoca e per mezzo della propria iniziativa. Realizzando il potenziale della propria vita, realizzano anche un frammento di verità nella propria epoca. Il più grande dei grandi navigatori, Ferdinando Magellano, l’uomo che Stefan Zweig ha rappresentato con la forza di un Ulisse moderno, ha contribuito alla storia della verità tanto quanto Einstein: ciascuno nella propria epoca e secondo i propri mezzi. L’uomo è il luogo in cui la verità si realizza e si manifesta, in cui le cose si mostrano per quello che sono. L’uomo è, in tal senso, verità vivente che si fa, e così permette alla verità di dispiegarsi.
Fino a oggi, però, nel corso dei millenni, il rapporto tra pensiero ed essere, tra uomo e mondo è sempre stato mediato da una struttura mitico/sacra/religiosa celata da quello che René Girard chiamava “misconoscimento” (l’incoscienza di questa mediazione). Tale struttura risulta ormai irrimediabilmente perduta. Ora l’uomo sta di fronte al mondo come chi sa che non vi è altro modo di attingere la verità, cioè di portare al dispiegamento dell’energia possibile (o del potenziale racchiuso in qualsiasi ente, se energia può apparire troppo tecnico/scientifico), se non attraverso la propria azione. Si può dire inoltre che questo cammino di liberazione, che è anche il tentativo di realizzare storicamente la verità, è “la missione dell’uomo”. Sebbene il termine missione possa suonare religioso, e forse lo è, perché è della verità che la religione si è sempre occupata, in realtà questa missione è qualcosa di tremendamente concreto. Non vi è dubbio, ad esempio, che Elon Musk (sebbene possa piacerci meno), come Magellano e come Einstein, realizza un pezzo della verità della nostra epoca, così come non vi è dubbio che in questa nostra epoca la verità accade nella tecnica: lì si manifesta e trova il proprio dispiegamento nel mondo contemporaneo.
Nel discorso sulla verità fin qui delineato, molti punti restano inevasi, ma solo a uno qui si può fare brevemente cenno: il rapporto tra etica e verità. Parlando dell’azione umana come del luogo in cui la verità trova il proprio disvelamento, possiamo concepire l’esistenza di un’etica che deve guidarci in questa nostra “missione”? Esiste una scala di valori? Esiste, a tal proposito, un giudizio morale? Esiste un limite al nostro operare?
Un gigante del Novecento, uno che ha dato il proprio contributo alla storia della verità, John von Neumann, padre del computer, della bomba H e di molte altre cose, riteneva non etico, per l’uomo, non fare a livello scientifico/operativo (qui diremmo nella ricerca della verità) ciò che è possibile fare, nonostante il potenziale distruttivo di ogni nuova scoperta. Da ciò possiamo concludere che se la ricerca della verità è tutt’uno con la missione dell’uomo, tale ricerca diviene allora l’unica postura etica possibile, l’unica autentica regola che possa guidarci.
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