"Conte, noi scoppiati e ci chiamò eroi. Juve fragile ma dentro c'è lui ora, il cuore batte ancora"

L'intervista esclusiva all'ex bianconero tra i ricordi della sua Vecchia Signora e un commento sulla situazione della squadra di Tudor: "È così. La storia non si cambia"
TORINO - Roma è la sua città, ma Torino l’ha adottato. Simone Pepe vuole restituire qualcosa al luogo che l’ha accolto nell’ormai lontano 2010, poco dopo il Mondiale in Sudafrica. Ha lanciato un’attività: si chiama Amen Corner, si trova in Via San Tommaso 16/C. Così ha portato il golf, una passione abbracciata da quando ha iniziato a vestire la maglia della Juventus, in città. Ha allestito un golf club urbano, un luogo al coperto che permette di riprodurre l’esperienza all’aperto. Una dimensione ideale per tutti: per i professionisti che vogliono allenarsi al chiuso nei mesi invernali, per i dilettanti che intendono mettersi alla prova con gli amici e pure per chi spera di innamorarsi a prima vista del golf senza averlo mai provato. Proprio come Pepe. Simone, restiamo in questo ambito.
Qual è la buca più importante della sua vita? «Non ho dubbi: la firma con la Juve. In quel momento ti rendi conto che i sacrifici che hai fatto hanno avuto un senso». E quali sacrifici le vengono subito in mente? «Ricordo il prestito al Teramo, dopo aver fatto tutta la trafila nelle giovanili della Roma, che da sempre ha un vivaio straordinario: Bruno Conti era un mago a Trigoria. In Serie C sono diventato uomo e giocavo da punta centrale. Nel salto in A, però, ho dovuto fare un passo indietro e così sono diventato un esterno». Perché? «Mi mancavano i gol di una punta. Ringrazierò sempre Pasquale Marino a Udine: fu molto onesto con me. Non aveva preclusioni, ma non mi promise nulla. Mi mise dentro contro la Fiorentina dicendomi: “Ora fai vedere se vali veramente qualcosa”. Feci due assist. Da lì è cambiata la mia vita».
Poi, l’approdo alla Juve. «Avevo firmato prima del Mondiale. Non capivo cosa fosse il Dna Juve fino a quando non sono entrato a Vinovo. Uno spogliatoio con tanti campioni con un’umiltà rara. Il primo anno feci bene, la squadra no. Non per colpa di Del Neri: noi giocatori avevamo tante responsabilità, ci mancava qualcosa e poi l’infortunio di Quagliarella ci tagliò le gambe». Qualche mese dopo a Torino arrivò Conte. «Gli devo tanto: è stato l’uomo più importante della mia storia calcistica. Ci ha cambiato la testa. Ci fece scoppiare a Philadelphia: le ripetute con 40° e un tasso di umidità clamoroso. Poi un giorno ci disse: “In quel momento ho capito che in rosa avevo degli eroi”». C’erano giocatori di un livello mostruoso, a dire il vero. «Ovviamente. Quando abbiamo visto Vidal per la prima volta, ci siamo chiesti tutti: “Ma da che pianeta arriva questo?”. Straordinario, non avevamo parole: aveva un motore incredibile. E poi Pirlo e tutti gli altri: le vittorie sono nate sul campo, ma anche nello spogliatoio».
Vede delle somiglianze tra questa e la sua Juve? «In un certo senso sì, vedo le stesse fragilità dell’inizio di un ciclo. Il club fa bene a difendere Tudor: la Juve deve tornare ad essere una famiglia. In questo senso, sono tranquillo per un aspetto: la presenza di Chiellini in società». Spieghi meglio. «Abbiamo condiviso tanto insieme, anche da giovanissimi: spesso eravamo in stanza insieme anche nelle nazionali giovanili. Ha un dono speciale: sa sempre quando e come parlare. Ha un’autorevolezza innata. Se c’è lui, vuol dire che il cuore della Juve batte ancora». Di cosa ha bisogno la Juve adesso per uscire dalla crisi? «Ripartire da Madrid: ho visto una squadra umile, tornata a fare bene le cose semplici. E poi proteggere l’allenatore in tutto e per tutto, anche se non sono sempre d’accordo con ciò che dice». A cosa si riferisce? «Alla Juve, purtroppo, ti ricordano se non vinci. È così, la storia non si cambia. Perché chi arriva prima ha vinto e chi arriva dopo vincerà, è un dato di fatto. Per cui accontentarsi di perdere 1-0 col Real non va bene, non alla Juve. Detto questo, Tudor conosce bene il gruppo e sa come parlare ai giocatori. E anche alla stampa. Ora bisogna proteggere l’allenatore, in una fase così serve essere uniti. La compattezza è tutto quando ha il compito di ricostruire».
Quando si è reso conto della complessità del mondo Juve? «Nel momento in cui in campionato pareggiavamo contro le big. Alla gente non bastava. Si pretendeva sempre il massimo. La storia del club è fatta di grandissimi campioni e anche tanti gregari: penso di collocarmi in mezzo, non ero solo corsa come alcuni vogliono farmi passare». Pepe senza infortuni che giocatore poteva essere? «Le sfortune nella vita sono altre. I problemi fisici, però, mi hanno rovinato gli anni più belli: ho sofferto tanto». Le resta il rimpianto di non aver mai indossato la maglia della Roma in prima squadra? «No, in quel periodo l’unico che giganteggiava nel salto dal vivaio alla prima squadra era De Rossi: mostruoso. Ho imparato tantissimo da Capello: nel tempo ho capito certe sfuriate. Da giovane vedevo la Roma come punto d’arrivo. Poi la vita mi ha portato ad essere un tifoso della Juve: sono un ragazzo fortunato».
TORINO - Roma è la sua città, ma Torino l’ha adottato. Simone Pepe vuole restituire qualcosa al luogo che l’ha accolto nell’ormai lontano 2010, poco dopo il Mondiale in Sudafrica. Ha lanciato un’attività: si chiama Amen Corner, si trova in Via San Tommaso 16/C. Così ha portato il golf, una passione abbracciata da quando ha iniziato a vestire la maglia della Juventus, in città. Ha allestito un golf club urbano, un luogo al coperto che permette di riprodurre l’esperienza all’aperto. Una dimensione ideale per tutti: per i professionisti che vogliono allenarsi al chiuso nei mesi invernali, per i dilettanti che intendono mettersi alla prova con gli amici e pure per chi spera di innamorarsi a prima vista del golf senza averlo mai provato. Proprio come Pepe. Simone, restiamo in questo ambito.
Qual è la buca più importante della sua vita? «Non ho dubbi: la firma con la Juve. In quel momento ti rendi conto che i sacrifici che hai fatto hanno avuto un senso». E quali sacrifici le vengono subito in mente? «Ricordo il prestito al Teramo, dopo aver fatto tutta la trafila nelle giovanili della Roma, che da sempre ha un vivaio straordinario: Bruno Conti era un mago a Trigoria. In Serie C sono diventato uomo e giocavo da punta centrale. Nel salto in A, però, ho dovuto fare un passo indietro e così sono diventato un esterno». Perché? «Mi mancavano i gol di una punta. Ringrazierò sempre Pasquale Marino a Udine: fu molto onesto con me. Non aveva preclusioni, ma non mi promise nulla. Mi mise dentro contro la Fiorentina dicendomi: “Ora fai vedere se vali veramente qualcosa”. Feci due assist. Da lì è cambiata la mia vita».
Tuttosport