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I Thunder campioni Nba sono un inno al management sportivo. E ai canestri di Shai

I Thunder campioni Nba sono un inno al management sportivo. E ai canestri di Shai

Foto Epa, via Ansa

a canestro

Oklahoma si aggiudica gara-7 grazie al solito canadese, che chiude così una serie di grande basket anche per merito dei Pacers. Il dubbio resta: come sarebbe finita se Haliburton non si fosse infortunato proprio sul più bello?

È scoccata l’ora degli Oklahoma City Thunder. Belli e vincenti, per la prima volta nella storia dell’Nba, fino al termine di una serie spettacolare, risolta in una gara-7 che però grida vendetta. Sarebbe fuorviante dire che la contesa per l’anello sia finita sul cambio di passo di Tyrese Haliburton, infortunatosi nel primo quarto nel modo più crudele che le Finals ricordino: anche allora, spogliati del loro leader, gli Indiana Pacers si sono battuti con l’impressionante tenacia che li ha portati a un passo dal titolo, rimontando fino al -10 a qualche minuto dalla sirena. I ragazzi di coach Carlisle ci avevano abituato a rimonte ancora più impensabili, nel corso di questi playoff. Stavolta però la benzina era finita. E dall’altra parte c’era una squadra pronta, concentrata, finalmente in grado di detonare tutto il suo potenziale offensivo – secondo tempo da 66 punti – senza più guardarsi indietro. È stata la notte di Shai Gilgeous-Alexander. Avrebbe potuto essere – grande what if di un tendine d’Achille saltato sul più bello – quella di un non meno straordinario Haliburton.

“Non posso immaginare di giocare la partita più importante della mia vita e vedermi succedere una cosa del genere”, la solidarietà del canadese verso l’avversario. “Non è giusto. Ma lo sport è ingiusto, a volte”. Così la festa è tutta dei Thunder, che consacrano un’annata trionfale – detonata dal miglior record in stagione regolare – con un trofeo mai raggiunto nella breve storia della franchigia (se non si considera il titolo dei Seattle SuperSonics, da cui raccolsero l’eredità cestistica nel 2008). Shai, Holmgren e Jalen Williams sono riusciti laddove i big three del passato – Durant, Harden e Westbrook, nel 2012 – si erano fermati. Anche se oggi è soprattutto l’apoteosi del playmaker, autore di una post-season da antologia: 30 punti spaccati a partita, 205 tiri liberi a referto. Livelli di produzione mai visti, sintomo di un Mvp semplicemente immarcabile.

L’altro grande artefice del successo di Oklahoma è Sam Presti. Professione general manager, capace di costruire la squadra del futuro – non era necessariamente oggi, che i Thunder dovevano vincere – grazie a una lunga combinazione di mosse tecniche oculate. A partire dal draft, da cui provengono sia Holmgren sia Williams. Non solo: per i prossimi sei anni, i Thunder si sono garantiti 45 scelte alla cervellotica lotteria Nba (più di qualunque altra squadra). Il che significa avere le mani sui talenti emergenti al costo più basso possibile, con un vantaggio competitivo difficilmente contrastabile senza enormi sforzi economici. In sostanza, mentre i Lakers e altre franchigie più altisonanti si prendono i riflettori – leggi Luka Doncic –, a OKC sta nascendo un roster potenzialmente in grado di aprire un ciclo.

È un modo di fare basket non dissimile da quel che si è visto a Indiana, arrivata in finale contro ogni pronostico e blasone dell’avversario. Anche all’ultimo atto, tutti davano i Pacers per grandi sfavoriti. Eppure si sono arresi soltanto per 4-3, nelle suddette circostanze. E con l’ulteriore rammarico di non aver messo in precedenza l’ipoteca sulla serie: in gara-4 avevano l’occasione di portarsi sul 3-1, conducendo nel punto a punto decisivo – specialità della casa – fino a quando Shai si è inventato il canestro del campione, viziato però da più di qualche movimento sospetto (fallo in attacco più passi), che l’indulgente arbitraggio Nba non ha pensato di sanzionare. A fare la differenza sono sempre i dettagli. Senza scomodare il castigo della sorte su Haliburton, che ieri è diventato il terzo giocatore con la canotta numero zero – dopo Lillard e Tatum – a rompersi il tendine d’Achille in questi playoff. Più che una maledizione, tre prove fin troppo evidenti dell’insostenibile carico fisico richiesto dall’estenuante calendario Nba. Speriamo che non ne servano altre.

Menzione d’onore per due protagonisti occulti di queste Finals: da una parte Alex Caruso, dall’altra T.J. McConnell, sinonimo di cosa significhi essere determinanti nella pallacanestro senza essere stati baciati dal puro talento. Hanno prevalso la qualità e la gioventù di Oklahoma, tutta l’Nba si è accorta però del metodo Indiana. Gioco a memoria, lucidità tattica totale, difesa forte e ripartenze: Tyrese e questi Pacers ritorneranno. Non sarà stata poi la serie dei grandi nomi – nemmeno Shai, in confronto a Jokic o LeBron, gode di popolarità globale. E a dimostrarlo è la risposta del pubblico, con i numeri più bassi degli ultimi anni per audience televisiva e interazione sui social. Eppure è stata probabilmente la sfida più bella di questo stesso periodo, capace di riportare il basket al centro della scena. Tra gioie, rimpianti e l’amaro in bocca per una gara-7 che meritava di risolversi ad armi pari. Su questo concordano i vinti come i vincitori.

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