Carceri peggio dei campi profughi: dovrebbero rieducare ma a farla da padrone è sovraffollamento e carenza di progettualità

Il degrado delle carceri
Sono luoghi che dovrebbero rieducare, ma a farla da padrone è il sovraffollamento e la carenza di personale, di risorse e di progettualità

Dopo tanti anni di esperienza da medico con missioni in Africa, Afghanistan e Iraq, operando in ospedali e campi profughi, in Italia nelle zone di lavoro di migranti e nel Mediterraneo centrale in salvataggio, pensavo di aver già visto abbastanza del degrado che la nostra (in)civiltà è riuscita a diffondere. Ma quando con Nessuno tocchi Caino ho avuto occasione di vistare le nostre carceri, mi sono reso conto che ancora non avevo visto il peggio. È stato scioccante entrare come medico in istituzioni ufficialmente create per contenere, ma anche rieducare e reinserire chi ha commesso degli errori e verificare come invece siano stati trasformati in luoghi dove la dignità dell’uomo non ha domicilio, dove il sovraffollamento, la carenza di personale, risorse e progettualità rende la vita di detenuti e detenenti una continua afflizione.
Una buona parte degli ospiti delle nostre galere sono dipendenti da sostanze, indotti a delinquere dalla loro dipendenza, immigrati che non hanno trovato un sistema di accoglienza, costretti a delinquere per sopravvivere e permanere reclusi non avendo un domicilio dove poter scontare una detenzione domiciliare, persone con patologie psichiatriche. Queste, anche se non evidenti prima dell’ingresso, vengono slatentizzate dalla detenzione, portando a comportamenti incongrui (e quindi ulteriormente puniti) o autolesionistici. Se si evitasse di rinchiudere queste persone, già il problema principale, il sovraffollamento, potrebbe essere superato. Ma non si supererebbe comunque la patogenicità degli istituti di pena. Nei briefing che precedono le visite di NTC gli operatori ci comunicano la presenza di pochi detenuti con problemi psichiatrici, intendendo quelli con una diagnosi precisa (schizofrenia, disturbo bipolare…), spesso già antecedente l’arresto. È di per sé evidente che essi non dovrebbero stare in carcere, ma essere presi in carico dai servizi psichiatrici.
Ma se poi si va a vedere quanti detenuti assumono psicofarmaci, per combattere l’ansia e la depressione indotte dal sistema, facilmente si arriva a percentuali attorno al 90%. Questo ci indica che il carcere di per sé è patogeno, cioè genera malattia mentale, e non c’è da stupirsi: in molti casi le celle sono chiuse 20 ore al giorno, l’accesso al lavoro è limitato a poche unità, le attività trattamentali sono limitate dalla carenza di personale e così via. Le tristissime statistiche sui suicidi (20 volte l’incidenza della popolazione generale) testimoniano come la carcerazione sia inevitabilmente patogena. Ma la nostra Costituzione (art.32) impone “la tutela della salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività” e non consente, oltre alla limitazione della libertà personale, di minare la salute di persone affidate alla custodia dello stato. La sua tutela è ora affidata alle aziende sanitarie, ma i pochi medici messi a disposizione, con i loro pochi mezzi, non possono che cercare di limitare il danno indotto dalla carcerazione, non certo ambire a prevenirlo.
La situazione detentiva nei vari istituti può essere anche molto diversa: recentemente ho visitato il Carcere di Trapani e di Favignana. Si passa dal totale degrado di Trapani, dove l’attività trattamentale o il lavoro, interno o esterno che sia, sono una chimera, a quella di Favignana, dove, nonostante sia un carcere “chiuso”, circa la metà dei detenuti gode di attività trattamentali o di lavoro dentro o fuori dal carcere. Non che siano tutte rose e fiori: le celle, pur ampie rispetto ad altri istituti, sono progettate per 3 detenuti, ma occupate da 4 o 5, e non è un cambio di poco conto. Non si capisce poi perché un carcere nel quale la conflittualità è minima e l’accesso a misure “premianti” alto, debba ancora mantenere un regime “chiuso”. Come è possibile, mi domando, che si possa ancora tollerare che la maggioranza, temo, degli istituti nel nostro paese siano solo luoghi di pena e afflizione, pur contando realtà che – con tutti i problemi e difetti – sembrano rispettare la dignità delle persone recluse, tendono a rispettare il mandato costituzionale e normativo di rieducazione e reinserimento, salvaguardano un’attività lavorativa se non gratificante, almeno accettabile per i detenenti.
Speriamo che l’attività di monitoraggio che NTC svolge anche per il DAP sia un incentivo a uniformare verso condizioni migliori tutti gli istituti. È anche stradimostrato che, laddove i detenuti sono rispettati come persone, la probabilità di reiterazione dei reati crolli, con un evidente vantaggio per tutta la società, anche da un punto di vista strettamente “economico”. Investire sulle carceri (strutture, personale, attività) significa non solo migliorare gli esiti, ma anche ridurre le spese. Come medico mi è chiaro che prevenire è molto meglio che curare sia in termini di esiti che di spesa. Non penso sia diverso nell’amministrazione penitenziaria.
l'Unità