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Cari lavoratori stranieri, siete indispensabili ma indesiderati: cosa ci dice l’Italia che rifiuta la cittadinanza

Cari lavoratori stranieri, siete indispensabili ma indesiderati: cosa ci dice l’Italia che rifiuta la cittadinanza
L’Italia è un Paese che, senza l’apporto quotidiano dei lavoratori e delle lavoratrici immigrate, semplicemente si fermerebbe

L’Italia è un Paese che, senza l’apporto quotidiano dei lavoratori e delle lavoratrici immigrate, semplicemente si fermerebbe

All’indomani dell’esito referendario, il dibattito pubblico, rispettando plasticamente le regole del principio di azione e reazione, si sta misurando su questioni dirimenti per il presente e il futuro di un Paese alle prese con dicotomie interne tanto complesse quanto, talvolta, superficialmente affrontate. Basti pensare allo spostamento di fuoco da parte della premier Meloni che, dopo aver visto naufragare i quesiti sul lavoro dipendente, ha rapidamente virato l’attenzione sulla cosiddetta “classe media”, dagli imprenditori ai liberi professionisti, evocando l’urgenza di alleggerire la pressione fiscale su quella che considera la spina dorsale economica dell’Italia.

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Il focus di questo articolo, però, si concentra non tanto sui quesiti relativi al lavoro quanto su quello che ha riguardato la cittadinanza. Ed è proprio quest’ultimo ad aver registrato una delle percentuali di rifiuto più nette: quasi il 35% degli elettori ha detto no al dimezzamento del tempo necessario, a parità di condizioni, per diventare cittadini italiani. Un rifiuto che non si spiega solo con la bassa affluenza e con il generale disinteresse, ma anche – e soprattutto – con un’opposizione sostanziale e culturale.

Il tema della cittadinanza

Vale allora la pena chiedersi: il tema è stato realmente discusso nella sua urgenza, compreso nella sua complessità, oppure è stato solo utilizzato come l’ennesimo grimaldello per alimentare la polarizzazione? A giudicare dalla pochezza del dibattito pubblico e dalla qualità del confronto, la seconda ipotesi sembra decisamente più fondata.

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Eppure, c’era – e c’è – moltissimo da dire. L’Italia è un Paese che, senza l’apporto quotidiano dei lavoratori e delle lavoratrici immigrate, semplicemente si fermerebbe. Non solo nei campi, nell’edilizia e nella logistica, ma anche nella cura dei nostri anziani, nei servizi di ristorazione, nelle fabbriche e negli ospedali. La retorica dell’“aiutiamoli a casa loro” si sgretola ogni giorno di fronte ai dati reali di una forza lavoro silenziosa e instancabile, che garantisce pezzi interi della nostra economia e del nostro welfare. A fronte di questa realtà, la mancata approvazione di un quesito che avrebbe semplificato e reso più giusto l’accesso alla cittadinanza per chi vive, lavora, paga le tasse e manda i figli a scuola in Italia da anni, suona come un paradosso crudele. È come se si dicesse: siete fondamentali, ma non abbastanza. Indispensabili, ma non desiderati. Utili, ma non degni.

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Non è un caso che nel nostro Paese il lavoro degli immigrati venga spesso narrato nei termini dell’emergenza o della sopportazione, mai come elemento strutturale e strategico per il futuro. Eppure, l’inverno demografico che sta colpendo l’Europa impone uno sguardo più ampio: nei prossimi decenni, i Paesi dell’Unione si contenderanno manodopera straniera qualificata e non, e l’Italia rischia di arrivare ultima, ostaggio com’è di un dibattito pubblico dominato dalla paura e dalla propaganda.

Perché il punto è che nessuno sembra voler affrontare seriamente la domanda chiave: chi lavorerà in Italia domani? Chi pagherà le pensioni? Chi costruirà ponti, curerà malati, raccoglierà frutta, crescerà bambini? Un Paese che rifiuta di riconoscere come cittadini coloro che già lo tengono in piedi ogni giorno è un Paese che rinuncia a se stesso. Ma forse è proprio questo il nodo: l’Italia non vuole vedersi per quella che è. Preferisce cullarsi nel mito di una nazione “bianca, cristiana e autoctona”, che non esiste più da decenni, piuttosto che accettare la propria trasformazione.

E allora, sì, il rigetto del quesito sulla cittadinanza non è solo un errore politico o un ritardo normativo. È una dichiarazione identitaria. È la prova che una parte del Paese preferisce restare ferma, piuttosto che mescolare il sangue. Che preferisce declinare l’italianità al passato, invece che coniugarla al futuro. Un futuro che, volenti o nolenti, parlerà molte lingue, avrà molti colori e pretenderà, prima o poi, giustizia. Non si può costruire una nazione nuova con cittadini di serie B. E chi oggi rifiuta di includere, domani sarà costretto a inseguire. Quando sarà troppo tardi.

Luce

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