Congedo mestruale, la lezione della penisola iberica: anche il Portogallo dalla parte delle donne. E l’Italia che fa?

Le mestruazioni non sono un capriccio e il dolore non è un tabù da silenziare tra una giornata in ufficio e delle ore in un’aula scolastica. Il Portogallo l’ha capito. E ha approvato una legge che riconosce il ciclo mestruale come condizione degna di cura e tutela. Con una misura concreta: tre giorni di congedo al mese senza alcuna ripercussione su stipendio e percorso accademico.
Portogallo e Spagna aprono la strada a una legislazione europea sul cicloIn Europa, l’unico altro Paese dotato di una legislazione in materia è la Spagna. Dal febbraio 2023 la “legge trans”, oltre a garantire l'autodeterminazione di genere per tutti gli over 16, prevede proprio un congedo mestruale, con certificato medico. Il Portogallo, rispetto ai vicini di casa, ha introdotto altri elementi d’avanguardia e tutela: non sarà necessario ricorrere, ogni mese, a una prescrizione medica, come avviene in Spagna. Sarà sufficiente una diagnosi clinica che lo certifichi una volta e per tutte. Nel testo di legge sono citate, e soprattutto riconosciute come patologie croniche, sia l’endometriosi sia l’adenomiosi: condizioni che, in Italia, faticano a essere inquadrate come tali. Lo Stato portoghese, inoltre, si impegna a rimborsare farmaci e cure e a garantire a tutte la possibilità di accedervi. È un principio chiaro: il ciclo mestruale è una condizione da riconoscere e curare attraverso la spesa pubblica.

Fu il Giappone, nel 1947, il primo a dotarsi di una legislazione in materia. E, per quanto possa apparire strano a noi occidentali, è proprio l’emisfero orientale a guidarci in questo senso. Con il Giappone ci sono l’Indonesia, Taiwan (dove il massimo è di tre giorni all’anno, retribuiti al 50%), la Corea del Sud (un giorno di congedo non pagato al mese) e lo Zambia (un giorno al mese senza preavviso né certificato). Insomma, una situazione a tratti paradossale. In un mondo dove il diritto al congedo mestruale ha trovato spazio anche – e soprattutto – fuori dall’Europa, spicca l’assenza dell’Italia, che su questo fronte resta senza una normativa nazionale.
Esempi locali virtuosi non bastano a colmare il vuoto legislativo in ItaliaLa speranza, per la nostra Penisola, si accende guardando a esempi – pochi, ma non per questo meno significativi – di singole realtà. Come un liceo di Potenza, che da settembre garantirà alle studentesse fino a due giorni al mese per dolori mestruali. Ma se, come afferma un’indagine di WeWorld-Ipsos sulla povertà mestruale (la prima in tutta Italia), più di 3 donne su 10 hanno dichiarato di soffrire e di aver perso, per questo, quasi sei giorni lavorativi all’anno, è evidente che l’autoregolamentazione e qualche fortunato esempio non bastano.
Una disuguaglianza strutturaleIl punto è che in Italia, tra l’iniziativa di un liceo e il dolore di chi soffre, manca ancora una visione sistemica. E, anzi, i segnali vanno nella direzione opposta: il continuo rimbalzo dell’IVA sugli assorbenti – che nel 2024 è tornata al 10%, contro il 4% della Spagna e il 6% del Portogallo – è la prova silenziosa di una disuguaglianza strutturale. Ha il sangue, ha i corpi. E soprattutto trasmette l'impressione che quei corpi e quel sangue siano un lusso.
Imbarazzo culturale: quanto pesa il silenzioPer sbrogliare la situazione, potremmo partire sciogliendo i nodi culturali. Lo studio di AstraRicerche, per Essity e Nuvenia, che produce assorbenti, realizzato nel 2024, rivela che l’imbarazzo sociale legato al ciclo mestruale, non solo è provato dalle donne, ma è assai diffuso anche tra gli uomini. Il 22,3% si sente a disagio parlandone. Oltre l’imbarazzo, però, c’è la volontà di unire le forze: il 65,5% degli uomini ritiene che parlarne aiuti a superare i tabù e a comprendere meglio le donne nella propria vita (madri, compagne, sorelle).
Tuttavia, solo il 21% degli uomini ammette di affrontare il tema “molto o abbastanza spesso” – contro il 40% delle donne. Un secondo sondaggio, realizzato da mUp Research per Initial, altra azienda per la cura femminile, sempre nel 2024, ha rivelato che il 17% degli uomini non ha mai parlato di ciclo e il 9% lo evita del tutto. Tra i più giovani addirittura il 54% dichiara imbarazzo o completo silenzio sul tema. Questi dati, combinati con stereotipi persistenti, alimentano un’omertà culturale quasi coatta. Omertà che si traduce in ostacolo all’apertura necessaria a rendere il ciclo mestruale un tema di interesse pubblico.
Il costo (sostenibile) di un dirittoCome in una tragedia di Eschilo, la domanda sorge spontanea: che fare? Da questi “lusso” e imbarazzi, arrivare a quel congedo, pare un’utopia. Ma non economica. Almeno secondo gli studi e le stime dell’economista e direttrice del media femminista indipendente thePeriod, Azzurra Rinaldi. Secondo Rinaldi, introdurre il congedo mestruale retribuito in Italia – modellato su quello spagnolo – con una copertura statale al 100%, prevederebbe un costo annuo intorno al miliardo di euro; riducendo la copertura al 60%, la spesa scenderebbe a meno di 600 milioni. Persino nell’ipotesi più ampia – estendendo il congedo a tutte le lavoratrici in età fertile, con tre giorni al mese – il peso sul bilancio pubblico non supererebbe lo 0,25% della spesa complessiva. E guardando all’esperienza spagnola, dove le richieste effettive sono state circa 1.500 in un anno, la spesa reale potrebbe risultare irrisoria: poco più di un milione.
Volontà politica cercasiE se il nodo non è economico, allora è inevitabile guardare alla politica. Perché Spagna e Portogallo sono riusciti a compattarsi su una legge così avanzata? La risposta arriva, almeno in parte, da alcuni numeri. Ai tempi della “Ley Trans”, in Spagna, la componente parlamentare femminile era del 46,8%. In Portogallo è, ad oggi, del 37%. E in Italia? Del 33,5%.
Il ruolo dell'Europa e uno spiraglio normativoE, allora, cosa manca? Sfatare i tabù? Costruire un mondo del lavoro e dell’istruzione che dia il giusto peso alle giuste cose? Senz’altro. Ma, forse, la strada più semplice per scardinare pregiudizi e luoghi comuni, sarebbe dotarsi di una normativa europea. A Strasburgo e Bruxelles, in Parlamento, il 38,5% è donna. E il tema ha già fatto capolino nelle aule dell’Europarlamento: nel 2021, alcune eurodeputate hanno sollecitato l’armonizzazione del diritto al congedo mestruale nell’ambito delle politiche europee per la parità di genere. Ma finora nessuna direttiva concreta è stata approvata. Eppure, una normativa comune non è irrealistica: il Pilastro Europeo dei Diritti Sociali – adottato nel 2017 – riconosce esplicitamente il diritto alla parità di genere sul lavoro e alla protezione della salute, lasciando aperto lo spazio per nuove misure in materia. Inoltre, nel 2022, il Parlamento ha approvato una direttiva che prevede congedi retribuiti per motivi familiari e di cura, segnale che una tutela legata al ciclo mestruale potrebbe essere formalmente contemplata, se rientrasse nella stessa logica.
Una grammatica da riscrivereAllora, quell’Utopia che si diceva, potrebbe essere una terra tutta immaginaria o tutta da scoprire. Lo vedremo. Per ora, si naviga a vista. E la vista, per quanto la grammatica insista a dirci il contrario, è prevalentemente maschile. Ma non è detto che resti così. Dicono che il ciclo mestruale sia una questione privata. Ma non c’è niente di più pubblico di un diritto negato. Forse è tempo di riscrivere anche questo, tra le righe di una nuova grammatica sociale, dove i diritti non possono restare confinati a geografie più o meno prossime.
Luce