Giustizia climatica: la svolta della Corte internazionale dell’Aja mette sotto accusa il nostro tempo

di MARGHERITA AMBROGETTI DAMIANI

Studenti in corteo a Pisa per il Friday for Future (Enrico Mattia del Punta)
Con una presa di posizione che farà scuola, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha emesso un parere destinato a risuonare nei tribunali, nei parlamenti e nelle piazze del mondo. A parlare non è un gruppo ambientalista radicale o un’organizzazione non governativa, ma il cuore del diritto globale: un pronunciamento che, pur non avendo forza vincolante, ambisce a riscrivere il linguaggio della responsabilità. Al centro della sentenza c’è un principio: i cambiamenti climatici non sono soltanto una minaccia scientifica, ecologica o morale. Sono una violazione dei diritti fondamentali. E il diritto, in quanto tale, è chiamato a rispondere.
La sentenza è una risposta all’appello lanciato nel 2019 da un gruppo di giovani delle isole Vanuatu, un piccolo Stato insulare che rischia di scomparire sotto l’innalzamento delle acque. Un grido che ha attraversato l’oceano ed è arrivato all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha chiesto alla Corte il parere consultivo oggi diventato un punto di svolta. E che trasforma il cambiamento climatico in una questione di dovere giuridico.
Non si tratta più solo di “invitare” i governi ad agire. Si tratta di affermare che la loro inazione può costituire una violazione del diritto internazionale. Che gli Stati hanno l’obbligo, non la facoltà, di prevenire danni ambientali su larga scala. Che le generazioni future non sono un’astrazione poetica, ma titolari di diritti. Che ignorare la crisi climatica equivale, in termini legali, a una forma di complicità.
Il giudizio della Corte è un terremoto silenzioso, ma profondo. Mette a nudo l’inadeguatezza delle politiche ambientali attuali e la lentezza esasperante della diplomazia climatica. Ma soprattutto restituisce al diritto quella funzione che spesso si tende a dimenticare: essere uno strumento di giustizia, non di equilibrio geopolitico.
In questo nuovo scenario, la giustizia climatica non è più un concetto etico o un ideale militante. Diventa architettura giuridica. È il passaggio da un mondo che si limita a registrare i danni, a un mondo che comincia a chiamare i responsabili. E in questa transizione, non saranno solo le nazioni a dover rispondere: imprese, banche, investitori, chiunque contribuisca attivamente al riscaldamento globale, si troverà – prima o poi – a dover rendere conto non solo alla società, ma alla legge. Certo, il parere della Corte non impone sanzioni. Non costringe nessuno. Ma crea un precedente. E i precedenti sono gli atomi con cui si costruisce l’universo giuridico. La giustizia climatica è entrata nella casa del diritto. E non se ne andrà facilmente.
Luce