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Il corpetto di Mengoni, gli abiti di Elodie. Quando la libertà di vestirci come ci pare indigna la “polizia del web”

Il corpetto di Mengoni, gli abiti di Elodie. Quando la libertà di vestirci come ci pare indigna la “polizia del web”
Mengoni in concerto

Mengoni in concerto

È l’abito a fare il monaco. O, almeno, lo è ancora in Italia, nel 2025: dove un corpetto può scatenare un dibattito nazionale. Nei giorni scorsi, l’ennesimo a essere finito sotto la lente impietosa del pubblico giudizio, la famigerata “polizia del gender”, è stato Marco Mengoni. I suoi cambi outfit durante la tournée italiana non sono passati inosservati. E hanno fatto storcere il naso a parecchi. La smoking gun è, si è intuito, niente poco di meno che un corpetto. Un corpetto nero, strutturato, elegante. E, soprattutto, maschile solo a metà. A chi vorrebbe l’equazione “uomo=vestiti-da-uomo” – qualsiasi cosa voglia dire – il corpetto di Mengoni dà fastidio. Perché Mengoni è uomo, è maschio, è italiano. E l’uomo maschio italiano, si sa, certi abiti – o habiti – non può permetterseli.

Il "caso” Elodie
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Elodie in concerto a San Siro

Ma se fosse davvero così semplice scardinare, o anche solo mappare, le elucubrazioni della “polizia del gender”, saremmo già sulla strada giusta. Sapremmo cosa detestano. Basterebbe continuare. E invece no. Le stesse critiche, forse ancora più feroci, si sollevano anche quando una certa Elodie “abusa” della sua femminilità. Quando gode del suo corpo e lo mostra per quello che è – o per quello che le va di mostrare. Si ricordi l’ultima edizione di Sanremo, e l’effetto total naked – come direbbero quelli del settore – del suo abito con spacco vertiginoso. Le polemiche furono più partecipate di un valzer alla corte di Sissi. Con la consueta precisione, tutta italiana, nel contare centimetri di pelle, trasparenze e cuciture.

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Prima di Mengoni ed Elodie, era toccato a Mahmood, Rose Chemical, Achille Lauro. A volte per i loro gesti, altre per i loro vestiti. O per entrambi. Gesti e abiti che solleticano ogni volta la prudente pancia del pubblico italiano, ancora poco incline a digerire libertà d’espressione e altre pietanze considerate troppo corpose.

Cosa succede all’estero

Ma non è un’esclusiva italiana. Basta pensare alla copertina di Vogue US con Harry Styles in abito Gucci, nel 2020: bastò una foto per aprire il vaso di Pandora del dibattito mondiale sulla mascolinità, con reazioni furibonde (“Bring back manly men!”, tuonava Candace Owens, blogger e youtuber statunitense) e contro-reazioni appassionate. In Italia il terreno è più sabbioso. Anche un paio di orecchini, un crop top o uno smalto nero bastano a generare allarmi. Ma non per tutti. Se lo fa una popstar, è tollerato. Se lo fa un cantante amato da mamme e nonne, si scatena il panico.

Oltre l’apparire c’è l’essere
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La segretaria del PD Elly Schlein

Intanto, la stessa Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico, continua a ricevere più attenzione per le sue scarpe da ginnastica che per le sue posizioni politiche. Sneakers, giacche over, felpe: troppo poco femminile per essere una “vera” donna. Troppo studiata per essere autentica. Troppo poco curata per essere una leader. Troppo, troppo, troppo – o troppo poco. Sempre fuori misura, qualunque sia l’unità di misura. Questa ciclicità di indignazioni estetiche racconta di un paese vecchio, rigido, in cui si fa ancora fatica a riconoscere la libertà altrui – figuriamoci a celebrarla. Un paese che scambia l’apparire per offesa, e l’identità per minaccia. Dove l’uscita dai ranghi è scambiata per provocazione, anche quando è semplice affermazione di sé. Ma se è vero che nel XXI secolo parlare della “società dell’apparenza” è quasi inevitabile, è anche vero che oltre l’apparire c’è l’essere. E forse è questo che disturba i ben pensanti che si scagliano contro i vari Mengoni. Cioè che quel modo di vestirsi – o non vestirsi – simboleggi qualcosa che va al di là della rottura degli schemi, della puerile provocazione. Non un semplice gioco di specchi. Un simbolo piuttosto, uno spazio di rivendicazione. Questo sono io, questa sono io. E ho il diritto di mostrarmi, senza chiedere permesso. Anche per quelli che, di spazio pubblico per esprimersi e risuonare, non ne hanno o ne hanno poco. Non è (solo) questione di estetica. È una questione di diritto: a essere visti, ascoltati, creduti. Oppure no.

Luce

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