Il villaggio sommerso dal ghiacciaio e l’altro disastro annunciato che ci ostiniamo a non vedere

C’è un silenzio che urla più di mille parole. È quello che si respira oggi tra le montagne del Lötschental, dove Blatten, un piccolo villaggio incastonato a 1.500 metri d’altitudine nel Canton Vallese, giace in gran parte sepolto sotto una colata di fango, ghiaccio, terra e detriti. Un’intera comunità travolta, come da un colpo improvviso e feroce della montagna, che ha ceduto con una violenza tanto imprevista quanto annunciata.
Una valanga di nove milioni di tonnellate si è staccata alle 15.30, dopo giorni di allerta, come a confermare una profezia che nessuno voleva davvero vedere scritta. L’intero versante del ghiacciaio del Birch è collassato a valle, portando con sé alberi, rocce, passato e presente. Il fiume Lonza è stato sbarrato, le case inghiottite. Una persona risulta dispersa. Una vita. Un volto. Un nome che oggi manca all’appello.
Ma questa non è solo la storia di una frana. È la storia di una ferita aperta, collettiva. È la voce di una crisi climatica che da anni bussa, poi grida, e ora devasta. È la storia di Blatten, ma anche la nostra. Di un mondo che continua a illudersi di poter vivere come se nulla fosse, mentre le montagne cadono, letteralmente, in silenzio.

Il sindaco Matthias Bellwald ha detto: “Abbiamo perso il villaggio, ma non il cuore”. E quelle parole, così semplici e vere, racchiudono lo spirito indomito della gente di montagna, ma non possono bastare. Non più. Non dopo anni in cui la Svizzera – e il mondo – hanno visto aumentare i “Bergstürze”, i crolli di montagna, legati allo scioglimento dei ghiacci e all’erosione accelerata del suolo.
Secondo i dati dell’Ufficio federale dell’ambiente (Ufam), la Svizzera ha perso in media il 2% del volume dei suoi ghiacciai ogni anno nell’ultimo decennio, con una perdita record del 6% solo nel 2022. Le Alpi si stanno riscaldando a una velocità doppia rispetto alla media globale. Questo non è più un segnale d’allarme: è già l’incendio che avanza.
Il 19 maggio, nove giorni prima del disastro, il villaggio era stato evacuato per precauzione. Circa 300 persone avevano lasciato le loro case. Ma la montagna ha aspettato. E poi si è abbattuta tutta insieme. Un sisma di magnitudo 3.1 ha scosso l’area al momento del crollo, quasi fosse un urlo della Terra.
E ora ci chiediamo, ancora una volta: fino a quando potremo permetterci di fingere che questi disastri siano isolati, sfortunati, inevitabili? Fino a quando continueremo a commuoverci davanti alle immagini senza cambiare nulla?
Ogni ghiacciaio che si scioglie, ogni montagna che si sgretola, ogni casa che si perde sotto il fango, è un appello. Un grido che ci chiede di guardare in faccia la realtà: la crisi climatica non è domani, è oggi. E ogni giorno in cui non facciamo abbastanza, ogni scelta mancata, ogni compromesso con la comodità, è una mano che spinge un altro villaggio verso il baratro. Non possiamo più limitarci a contare i morti dopo le frane, dobbiamo contare ogni grado in più come una vita in meno. Perché ignorare la crisi climatica non ci rende spettatori: ci rende complici.
Luce