In carcere da 30 anni, cieco e fragile: l’agonia in cella di Bennardo Bommarito

L'incontro con i detenuti
Bennardo Bommarito è in carcere da più di trent’anni. Oggi non ci vede, è solo e fragile. Va liberato, perché la giustizia non può essere punizione senza umanità

Sono ormai nove anni che Nessuno tocchi Caino anima il laboratorio “Spes contra Spem” nel carcere di Opera a Milano, dove ci rechiamo ogni mese. Ogni mese per nove anni, per essere speranza contro ogni speranza, essendoci il rischio che in carcere prevalga la disperazione perché luogo di privazione non solo della libertà.
Ne abbiamo avuto prova (l’ennesima!) l’8 agosto, quando siamo entrati, sotto il sole rovente, a via Camporgnago 40 dopo aver fatto una scelta. Perché, se prima ai laboratori potevano partecipare i detenuti di vari circuiti quali l’alta sicurezza 1, alta sicurezza 3 e media sicurezza, seduti nel teatro dedicato a Marco Pannella, in parti ben separate l’una dall’altra, poi si è disposto che facessimo il laboratorio circuito per circuito. Senonché ad agosto si è aggiunta un’ulteriore restrizione, perché ci è stato comunicato che nella stessa giornata non potevamo fare che un solo circuito. Così abbiamo scelto di farlo con i detenuti dell’AS3.
L’incontro ci ha dato la forza che si può trarre quando, accaldati e assetati, si beve l’acqua di sorgente. Perché il laboratorio fa accedere al pozzo dell’essere autentico di ognuno di noi. Si sgretolano tutte le incrostazioni mentali fatte di giudizi e pregiudizi e si vede la natura pura sia di chi abita questi luoghi che del luogo stesso. Abbiamo così visto e ascoltato detenuti manifestare la loro coscienza, elevata e orientata ai diritti umani. E abbiamo visto un luogo, quello del carcere, che da strumento di privazione della libertà diventa una pena corporale, strumento di privazione di tutto, di quelli che sono i fondamentali sensi umani, financo della vista.
È accaduto che uno dei nostri più assidui partecipanti, Bennardo Bommarito, siciliano di 89 anni, che nei nove anni di tenuta del nostro laboratorio non è mai mancato all’appuntamento, la volta scorsa non ci fosse. “Avrà avuto una telefonata o una visita in corso”, ci eravamo detti notando la sua mancanza, perché mancava il suo sorriso, la sua vitalità. Tant’è che l’8 agosto c’era. Tuttavia lo abbiamo trovato accasciato su una sedia a rotelle. Aveva una stampella tra le gambe. E gli occhi chiusi. Li ha chiusi perché non ci vede più. I suoi begli occhi azzurri si sono spenti. Nel giro di un mese, prima un occhio se ne è andato. Poi l’altro lo ha seguito. “Non ci vedo più” è stato quello che Bennardo ci ha detto appena siamo entrati nel teatro dove si svolge il laboratorio. “È terribile”, ha quasi urlato con una faccia pallida e china verso il basso, come se volesse un po’ nasconderla. Parla a voce alta perché cerca di compensare con la voce quella parte di sé che non vede più. Lo assiste in tutto e per tutto il senatore Antonio d’Alì, che alla bella età di 73 anni incarna la parabola del buon samaritano, la misericordia e la compassione cristiana verso il suo prossimo, il compagno con cui divide la cella. È Antonio che, buttato dietro le sbarre con tanto di feroce gogna mediatica, ha deciso di prendersi cura di quest’uomo.
Accudisce Bennardo di prima mattina, lo lava, lo veste. Poi va all’aria un paio d’ore. Chi si occupa o si è occupato di anziani sa cosa vuol dire prendersi una pausa da un impegno che ti assorbe ogni energia. Poi, tornato in cella, lo affianca in tutte le altre necessità quotidiane, fino a sera, quando Bennardo si sdraia a letto per trovare nel buio della notte quel conforto che la luce del giorno non può mai dare a un cieco. Men che mai in estate e men che mai a un siciliano che si presentava, appena i raggi del sole lo permettevano, sempre abbronzato. Bennardo è in carcere da oltre trent’anni e sta nel circuito di alta sicurezza 3. Come diceva Leonardo Sciascia, non c’è nulla di più certo delle coincidenze. Il fatto di aver l’ultima volta scelto quel circuito è stato ciò che ci ha permesso di conoscere quel mistero triste che riguardava la sua assenza al nostro precedente laboratorio.
Penso che non si sia trattato di una coincidenza neppure quella volta in cui, un paio d’anni fa, trascorremmo ore a discutere nel teatro del carcere di Opera e Bennardo, in una delle poche volte in cui ha preso la parola, ci ha parlato di sua moglie. Ci raccontò che non stava bene ma lo fece in un modo comunque tale da non affliggerci. Solo che, quando uscimmo dal laboratorio, chiese a Sergio di chiamarla, salutarla per lui. Al telefono rispose, mi pare, il figlio che ci informò che la signora Bommarito se ne era andata, forse proprio nel momento in cui lui, in carcere con noi, la invocava. Chiamammo subito la direzione e chiedemmo che, con la stessa delicatezza che lui aveva usato nei nostri confronti parlandoci della moglie, lo informassero dell’accaduto facendogli fare una telefonata ai figli. E così è stato. Non so cosa accada al cuore di un uomo, o di una donna, quando, nell’impossibilità di muoversi, si viene colti da una di quelle notizie, come la morte di un proprio caro, che non si vorrebbe mai ricevere. Cosa esplode dentro mentre si ripensa a una vita fatta anche di lunghe assenze, di dolori, volutamente o meno, inflitti e di dolori comunque subiti. Cosa si rompe, cosa si spezza, cosa muore dentro quando sai che quel corpo amato non lo vedrai più, non lo toccherai più, neanche freddo?
Vedere un uomo ridotto nelle condizioni in cui abbiamo visto Bennardo venerdì scorso ci fa riflettere sul senso della pena. Una pena che non è solo privazione della libertà ma è una torsione che affligge fisicamente il corpo e la sfera sensoriale fino ad annientarla, fino a far perdere la vista. Non sappiamo se questo torcere il corpo abbia causato direttamente la cecità, che ci dicono sia dovuta a una lesione del nervo ottico, o se la sofferenza di una pena meramente afflittiva sia tale per cui Bennardo stesso si sia detto che è giunto il tempo di non vedere più, perché quello che ha intorno è inguardabile. È insostenibile alla vista. Sta di fatto che un uomo nato nel 1936 – in quell’anno Benito Mussolini proclamava l’Impero italiano – è oggi in carcere senza poter più usare gli occhi. Conoscerà anche la cella, dopo oltre 30 anni di branda, come si dice in gergo carcerario, in modo tale da poterla vivere a occhi chiusi, ma questo non toglie che ti assale l’angoscia a guardarlo. Durante il laboratorio – ma questa riflessione non la facciamo solo qui – tutti si sono chiesti che senso abbia tutto questo e quale rieducazione sia ancora da esigere da quest’uomo alla soglia dei suoi novant’anni. Ci siamo chiesti fino a che livello di degrado umano e civile dobbiamo arrivare prima di riuscire a rispettare la dignità di quest’uomo.
A chi ha potere e credo anche dovere di farlo, dico: liberate Bennardo Bommarito, figlio di una terra e una storia d’altri tempi che lui non rivedrà e vivrà mai. L’uomo del reato non esiste più. Oggi, è solo, cieco, inerme, con il suo fine pena mai. Che non sia terribile e spietata, come quella dell’occhio per occhio, la giustizia verso di lui.
l'Unità