L’altra guerra sanguinosa dell’Iran, combattuta con la pena di morte

La pena di morte nel regime
Non concentriamoci solo sulla questione nucleare ma guardiamo all’arma della pena di morte usata contro il popolo

Grande è l’attenzione sulla guerra tra Iran e Israele o sul programma nucleare di Teheran. Totale la distrazione sull’impressionante numero di esecuzioni compiute dal regime clericale nei confronti dei propri cittadini. Cifre destinate ad aumentare e che non possiamo ignorare. È connotato costitutivo di questo regime, sin dalla sua nascita con la Rivoluzione del 1979, rispondere alle minacce alla propria autorità con brutali repressioni del dissenso interno.
Come nel caso delle manifestazioni seguite alla morte di Masha Amini, uccisa per mano della polizia morale di Teheran nel settembre 2022, quando cittadini iraniani si sono riversati nelle città di tutte le 31 province del Paese. Secondo il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, coalizione di gruppi di opposizione pro-democrazia, di cui i Mojahedin del Popolo dell’Iran (MEK) sono la componente principale, circa 750 manifestanti sono stati uccisi durante quella rivolta del 2022. Nello stesso periodo si sono registrati oltre 30.000 arresti – una cifra poi di fatto confermata anche dai media statali iraniani. I procedimenti giudiziari successivi hanno portato a un numero non precisato di condanne a morte, di cui circa una dozzina già eseguite. Chi allora è sceso in piazza sapeva a cosa andava incontro. Meno di tre anni prima, nel novembre 2019, un’altra ondata di proteste aveva portato all’uccisione di circa 1.500 manifestanti.
Tanto più il regime si sente minacciato, tanto più efferata è la repressione. Come quando, nell’estate del 1988, la teocrazia dei Mullah si trovò ad affrontare sia la crescita dell’opposizione interna che l’umiliante conclusione della guerra durata otto anni con il vicino Iraq. Allora, la Guida Suprema Khomeini emanò una fatwa dichiarando che l’opposizione, in particolare il MEK, erano “nemici di Dio” e pertanto andavano puniti con la morte. Si istituirono nelle carceri le “commissioni della morte” per interrogare i prigionieri politici. Dopo circa tre mesi di questi procedimenti, oltre 30.000 detenuti – il 90% dei quali affiliati al MEK – furono giustiziati e sepolti in fosse comuni segrete. Con le debite distinzioni in termini numerici, emerge oggi dal passato quel massacro del 1988. I media di Stato iraniani hanno apertamente riportato che circa 700 persone sono state arrestate durante il conflitto iraniano-israeliano, mentre alcuni attivisti per i diritti umani stimano che il numero reale superi i 1.000.
In modo allarmante, l’agenzia Fars News – affiliata al Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica (IRGC) – il 7 luglio ha esplicitamente invocato la ripetizione del massacro del 1988. La gravità della situazione è stata sottolineata da dieci esperti delle Nazioni Unite il 4 luglio, i quali hanno espresso profonda preoccupazione per l’intensificarsi della repressione, affermando che “l’Iran non deve permettere che la storia si ripeta ricorrendo agli stessi oscuri modelli repressivi che hanno devastato il suo popolo nei periodi successivi ai conflitti del passato.” La nuova ondata repressiva contro il dissenso coincide con un’impennata di esecuzioni, iniziata come estensione della repressione legata alla rivolta del 2022. Nel 2023 è stato riportato che oltre 850 iraniani sono stati giustiziati per una vasta gamma di accuse, molte delle quali infondate o pretestuose. Una cifra ampiamente superata nel 2024, quando sono state eseguite circa 1.000 esecuzioni – il numero più alto degli ultimi vent’anni. Tragicamente, le esecuzioni sono diventate parte integrante del DNA del regime attuale. E le previsioni per il 2025 sono ancora più allarmanti. Mentre scrivo, Nessuno tocchi Caino ha contato almeno 700 esecuzioni compiute quest’anno. E siamo solo a poco più di metà anno! Sappiamo quanto sia fallimentare la politica dell’accondiscendenza. Come è evidente che la guerra esterna non rappresenti una soluzione.
Per Maryam Rajavi, eletta dal Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI) come presidente per il periodo di transizione dopo la caduta dei mullah, la soluzione definitiva sta in un cambiamento di regime a opera del popolo iraniano e della sua resistenza organizzata. Cosa possiamo fare noi? Non concentriamoci esclusivamente sulla questione nucleare, ma guardiamo all’arma della pena di morte usata contro il popolo iraniano. Cerchiamo di disinnescare questo ordigno. Facciamoci forti di quello sciopero della fame dei condannati a morte in Iran, a cui danno corpo ogni martedì da un numero sempre crescente di carceri. Io lo faccio ogni martedì. Sarebbe bene farlo in molti. magari aderendo ogni martedì. Prendiamo atto che nel piano in dieci punti per l’Iran libero di Maryam Rajavi è prevista l’abolizione della pena di morte. Riconosciamola come un interlocutore politico e il regime iraniano cadrà.
l'Unità