Nawrocki e i suoi fratelli putiniani, figli dell’Unione sovietica

Il solito, grazie. La vittoria alle elezioni presidenziali polacche di Karol Nawrocki, candidato indipendente sostenuto dal partito di estrema destra Diritto e giustizia – Pis conferma un dato: nei paesi di vecchia influenza sovietica il mix di populismo, autoritarismo e nazionalismo ha sempre un grande fascino sulla popolazione. Semisconosciuto, neofita della politica, Narowcki si aggiunge alla lista di capi di Stato o di governo espressi da partiti di stampo illiberale. Spiccano, ovviamente, in Ungheria e Slovacchia Viktor Orbàn e Robert Fico, ma con loro ci sono anche leader finora sconfitti, come il candidato presidente della Romania George Simion o Alice Weidel, che guida Afd, il partito di ultradestra tedesca che cresce senza sosta. E non bisogna tralasciare nemmeno la Serbia, che pur non facendo parte dell’area un tempo tenuta insieme dal Patto di Varsavia, vive con Aleksandar Vucic analoghe vicende.
Insomma, una grande famiglia, dove al posto del legame di sangue troviamo un passato comune (o analogo nel caso serbo) e una forte carica di antieuropeismo. Semplificando, possiamo dire che il populismo, che non è certo un male che attanaglia solo l’Europa dell’est, anzi, oltre che in una scarsa familiarità con la democrazia affonda le radici nell’insofferenza economica e sociale e nella percepita inadeguatezza nell’affrontarle da parte dei governi che si sono succeduti dalla fine del comunismo a oggi.
Il rigurgito nazionalista, invece, proviene soprattutto dal soffocamento delle identità nazionali perpetrato durante la Guerra fredda, ma anche dal multiculturalismo che, con la globalizzazione, improvvisamente si è abbattuto su questi Paesi acuendo le tensioni sociali esistenti. A tutto questo va aggiunta una forte retorica antieuropeista. Se prima di entrare a farne parte l’Unione europea viene vista come la panacea di tutti i mali, dopo l’ingresso (o con lo stallo del processo di integrazione, come per la Serbia) subentrano nella valutazione disillusione e scoraggiamento a causa della scoperta che a Bruxelles nessuno ha la bacchetta magica. Anche per questo, si fatica ad accogliere cessioni di sovranità all’Ue, le cui politiche vengono spesso viste come “intrusioni” in affari interni.
Tra i vari nomi, Nawrocki è il meno noto. 42 anni, ex boxeur, è originario di Danzica, proprio la città da cui i polacchi alzarono la voce per chiedere più libertà contro il giogo sovietico. È laureato in storia ed è stato presidente dell’Istituto per la memoria nazionale, un centro di ricerca molto vicino agli ambienti dell’estrema destra. Di lui si sa veramente poco. Durante la campagna elettorale, i media polacchi hanno fatto di tutto per scoprire di più e sono venuti alla luce alcuni scandali – traffico di prostitute, risse tra ultras – che lui ha respinto, anzi ha usato gli attacchi per presentarsi come un martire, sulla falsariga di quanto fatto negli Stati Uniti da Donald Trump.
In Polonia, i poteri esecutivi del presidente della Repubblica sono abbastanza limitati, ma gli osservatori più esperti danno per certo che Nawrocki farà ostruzionismo rispetto alle politiche del premier centrista Donald Tusk. È proprio quest’ultimo il grande sconfitto delle elezioni presidenziali, perché il suo candidato ha perso contro quello sostenuto dal Pis, che dunque mantiene la carica per il secondo mandato di fila. Se Nawrocki, come direbbe qualcuno, non è stato visto arrivare, dire Pis, in Polonia, è dire tutto un programma. Fortemente conservatore, illiberale, contrario alle unioni civili e all’aborto oltre che al fine vita, negli anni in cui ha espresso il primo ministro Pis ha ostacolato o condizionato i lavori di magistratura e stampa, tanto che quando Tusk ha vinto le elezioni nel 2023 il suo primo obiettivo è stato quello di ripristinare lo Stato di diritto.
Quello di Viktor Orbàn è il primo nome che viene in mente quando si pensa a un leader europeo che di europeista ha molto poco. Il premier ungherese ha definito «uno spettacolo» la vittoria di Nawrocki e ha detto di aspettarsi un rafforzamento della cooperazione all’interno del Gruppo di Visegrad, l’alleanza tra Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. Populista, vicino a Vladimir Putin, ostruzionista sul sostegno di Bruxelles all’Ucraina, contrario anche lui ai diritti lgbt+ (recentemente ha vietato il Pride con una pretestuosa legge), ha messo le mani su gran parte del sistema di informazione e rappresenta una vera spina nel fianco per l’Unione europea con i suoi veti alle sanzioni contro la Russia. Di professione avvocato, alla guida del Paese dal 2010, è una sorta di idolo per tutti gli altri leader sovranisti europei, da Matteo Salvini in giù.
Un identikit molto simile ce l’ha Robert Fico, primo ministro della Slovacchia dal 2023 dopo aver ricoperto la carica già altre due volte, dal 2006 al 2010 e dal 2016 al 2018. Durante il primo mandato ha dovuto gestire la crisi economica del 2008 e lo ha fatto sfruttandola per aumentare la sua popolarità grazie al rifiuto di imporre misure di austerity e traghettando la Slovacchia dentro l’Eurozona. Il secondo mandato, invece, si è concluso anzitempo a causa delle violente proteste scoppiate a causa dell’omicidio del giornalista investigativo Jan Kuciak e della sua fidanzata (Kuciak aveva sostenuto l’esistenza di legami tra alcuni membri del governo Fico e la ‘ndrangheta). Di nuovo in sella nell’autunno del 2023, uno dei suoi primi atti è stato chiudere la radiotelevisione pubblica e sostituirla con una meno critica verso il governo. Molto vicino a Putin, il suo sostegno all’Ucraina è sempre incerto: prima di votare a favore di pacchetti di aiuti o sanzioni, spesso minaccia di fare il contrario, provando a ricattare Bruxelles per avere in cambio garanzie sui fondi che spettano alla Slovacchia oppure sull’approvvigionamento energetico del suo Paese.
Fuori dai confini dell’Ue, dinamiche simili si notano in Serbia. Pur non condividendo con gli altri Paesi l’esperienza sovietica, ha vissuto una transizione ancor più dolorosa e violenta dal socialismo jugoslavo al rigurgito nazionalista degli anni Novanta. La stabilizzazione democratica è stata incerta, tanto che per Freedom house, l’ong statunitense che dal 1944 fa ricerca e sensibilizzazione su democrazia, libertà politiche e diritti umani, la Serbia è un Paese «parzialmente libero». Da mesi sono in corso proteste studentesche contro il sistema di potere di Aleksandar Vučić, accusato di corruzione, mancata trasparenza e ostruzione alla libertà di informazione. Vučić è un leader ambiguo, che mentre cerca di mantenere buoni rapporti con l’Unione europea (con cui il dialogo per l’ingresso è fermo da vent’anni) strizza l’occhio a Putin.
Frontiere (più) chiuse, negazione di diritti civili, nazionalismo, populismo e disimpegno in Ucraina quando non proprio favoreggiamento di Putin sono gli ingredienti anche di due ricette che, per il momento, non sono risultate vincenti. Si tratta di quelle di George Simion, che il mese scorso ha perso il ballottaggio in Romania contro il centrista europeista Nicușor Dan, e di Afd in Germania, che è arrivata seconda alle elezioni ma che ora è data prima nei sondaggi.
In apertura: Karol Nawrocki (AP Photo/Czarek Sokołowski/Associated Press/LaPresse)
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