Quattro bambini che non dovevano guidare, una vittima e la ferocia degli adulti

C’è una fotografia che non vedremo mai sui giornali, e forse è meglio così. È quella di quattro ragazzini – tre maschi e una femmina; undici, dodici, tredici anni – svegliati all’alba in un accampamento di roulotte alla periferia di Milano, circondati da poliziotti che li hanno rintracciati dopo giorni di indagini serrate. In base a quanto sappiamo delle indagini, sono colpevoli di aver investito e ucciso Cecilia De Astis, 71 anni, prima di fuggire a piedi abbandonando l’auto rubata.
La cronaca è implacabile nei suoi dettagli tecnici: omicidio stradale aggravato dall’omissione di soccorso, fascicolo aperto dal pubblico ministero Enrico Pavone, identificazione attraverso sistemi di videosorveglianza, testimonianze, riconoscimento delle magliette.
La reazione dell’opinione pubblica è stata, prevedibilmente, feroce. Sui social media, sotto alla notizia, si invoca “una pena esemplare”, si grida al “far west”, si chiede che “paghino come gli adulti”. È la solita liturgia punitiva che accompagna ogni fatto di cronaca nera, amplificata stavolta dall’età dei protagonisti e dalla loro provenienza: un accampamento rom in via Selvanesco, che – particolare non irrilevante – risulta essere su terreno privato messo a disposizione volontariamente dal proprietario bosniaco, senza alcuna denuncia di occupazione abusiva. Un dettaglio che sfugge al linciaggio mediatico di chi vorrebbe trasformare automaticamente ogni nomade in un “abusivo”.
L’ordinamento italiano ha stabilito all’articolo 97 del Codice Penale che i minori di quattordici anni sono non imputabili (tra i quattordici e i diciotto possono esserlo, ma spetta a un giudice stabilirlo). Se il minore viene ritenuto “socialmente pericoloso”, possono essere applicate delle misure di sicurezza. Non è un tecnicismo giuridico, ma il riconoscimento di un dato scientifico incontrovertibile, suffragato da decine di studi di psichiatria e psicologia dello sviluppo: prima di quell’età, il cervello umano non ha ancora sviluppato completamente la capacità di intendere e volere, il controllo degli impulsi, la comprensione delle conseguenze a lungo termine delle proprie azioni. È neurobiologia, non ideologia.
Ma c’è dell’altro, ed è forse la questione più scomoda. Questi quattro bambini – perché di bambini si tratta – sono il prodotto di un contesto. Nessuno nasce criminale, semmai lo diventa in un ambiente dove rubare un’auto e guidarla senza patente può sembrare normale, dove l’adulto di riferimento non c’è o non funziona, dove la strada è l’unica scuola disponibile.
Molti hanno invocato la forca, pochi si sono fatti le domande giuste. Come chiedersi dove fossero i servizi sociali, perché nessuno di loro aveva documenti, come mai bambini di 11-13 anni si trovavano senza supervisione adulta in grado di guidare un’automobile. È più scomodo interrogarsi su cosa significhi crescere ai margini, in una società che prima ti esclude e poi ti criminalizza.
L’educazione genitoriale è un lusso che non tutti si possono permettere. Chi cresce nella povertà educativa, materiale e affettiva, non ha le stesse opportunità di chi cresce nel benessere. Non è relativismo morale: è la presa d’atto che il contesto plasma le coscienze più di quanto ci piaccia ammettere. Un bambino che a tredici anni guida un auto rubata ci sta dicendo qualcosa di preciso sulla sua infanzia negata.
Il sistema penale italiano lo sa, e per questo prevede misure alternative per i minori non imputabili: non pene, ma strumenti di protezione e recupero. Libertà vigilata, istituti specializzati, percorsi educativi. L’obiettivo non è punire ma recuperare, non vendicarsi ma costruire. È l’approccio di una società civile che crede nella possibilità di riscatto.
La famiglia di Cecilia De Astis ha diritto al dolore, alla rabbia, alla richiesta di giustizia. Una donna di settantun anni è morta investita da bambini in fuga, ed è una tragedia che nessuna spiegazione sociologica può lenire. Ma giustizia non significa vendetta, e soprattutto non significa trasformare quattro bambini in mostri.
Questi ragazzini bosniaci sono nati a Milano, Torino, Vizzolo Predabissi. Sono cresciuti qui, hanno imparato l’italiano qui, hanno respirato la nostra aria. Se hanno compiuto un gesto tanto scellerato, non è solo colpa dei loro genitori, o della loro comunità: la colpa è anche di un ordinamento sociale che lo ha permesso. Della scuola che non li ha raggiunti, degli enti pubblici che non li hanno visti, della società che li ha considerati marginali fino al momento in cui sono diventati criminali.
Perché se la criminalità giovanile è in aumento – dal 2010 le segnalazioni di reati commessi da minori sono aumentate del 39% – la causa di questo dato prende in carico tutto il sistema Italia. La vera domanda non è quanto debbano pagare quattro ragazzini per aver ucciso una donna. La vera domanda è quanto siamo disposti a investire perché altri quattro ragazzini non si trovino nella stessa situazione.
Luce