Scalare senza conquistare: l’arrampicata come gesto di libertà. È la rivoluzione gentile dei Brocchi sui Blocchi

“Scaliamo solo per il piacere di farlo”, afferma Amedeo Cavalleri, fondatore di Brocchi sui Blocchi. Poche parole che ci ricordano quanto un piacere così fanciullesco, quello del divertimento, ci stia lentamente scivolando tra le dita. In una società estremamente performativa, capace di legare ad ogni azione un fine, Amedeo Cavalleri, Davide Borgogno, Dario Cressoni e Roberto Mor provano a ricordarci come, almeno in arrampicata, questo costrutto sia strutturalmente destinato a crollare.

È proprio lì, su quei blocchi – i massi su cui si pratica il bouldering, l’arrampicata senza corda – che si consuma questa piccola ribellione. Con Amedeo Cavalleri abbiamo parlato di come questa disciplina, definita affettuosamente “il gesto inutile”, possa aiutare tutti e tutte noi a vivere meglio le difficoltà della vita quotidiana.
Chi sono i Brocchi sui Blocchi e perché un nome così particolare?

“Brocchi sui Blocchi è un gruppo di amici, anche se ci definiamo un collettivo che ha iniziato a scalare insieme otto anni fa, ormai. In realtà, eravamo un gruppo abbastanza diverso rispetto a quello che è oggi, e il nome nasce proprio durante una garetta amatoriale che fanno qua sul Lago di Garda, dove abito io. Un mio amico mi domandò: ‘Dai, ma che ci andiamo a fare a questa gara?’. E io risposi: ‘Andiamo a fare i Brocchi sui Blocchi!’. Il nostro nome nasce così, per ridere davanti a una birra. E questo nome qua è piaciuto, così abbiamo cambiato il nome del gruppo WhatsApp nel quale ci organizzavamo per scalare in ‘Brocchi sui Blocchi. Tutto è nato così, per gioco. Poi, a un certo punto, ho deciso aprire una pagina Instagram con lo stesso nome dove, inizialmente, raccontavamo chi eravamo, il nostro modo di vivere l’arrampicata, tutte cose abbastanza… normali, no? Perché per noi erano normali, era la nostra quotidianità. Però, ci siamo accorti fin da subito, a partire dai primi 100, 200 followers, che chi ci seguiva ci scriveva per dirci: ‘Cavoli, ma allora ci sono persone che la pensano così; quindi, esiste anche questo modo di viversi l'arrampicata’. A quel punto, abbiamo capito che era un qualcosa destinato a creare un po' di rottura nel mondo dell'arrampicata, e ci siamo chiesti quale fosse la direzione verso la quale volevamo andare. Sapevamo fin dall’inizio di non voler diventare influencer, recensire prodotti o fare promozione. Volevamo parlare liberamente di ciò che ci stava a cuore, di ciò che ci piaceva davvero. Spesso si compiono gesti politici senza nemmeno rendersene conto: nel nostro caso, abbiamo iniziato a costruire intorno a noi, nell’arrampicata, l’ambiente che ci mancava. Abbiamo creato una narrazione che solo col tempo abbiamo riconosciuto essere sociale”.
Quindi, la narrazione etica e militante del progetto è apparsa fin da subito?

“Sì, la dimensione etica del progetto è arrivata quasi subito perché, diciamo, è una declinazione del nostro pensiero applicato all’arrampicata. Fin da subito abbiamo creato questa narrazione che, col senno di poi, ci siamo accorti essere estremamente politica. Tanti ci chiedono il perché di un approccio così politico, ma la realtà è semplicemente che noi siamo così, quello era ed è il nostro modo di vivere qualunque cosa e, di conseguenza, anche l'arrampicata”.
Quali sono i valori cardine di questa dimensione etica che voi integrate nell’arrampicata?
“Di base inclusività, ambientalismo e antifascismo. Più in generale il rispetto, che noi intendiamo come rispetto della natura e delle persone, ma anche il cercare di non colonizzare gli spazi. Quindi, cercare di non colonizzare l'ambiente ma, al contrario, creare luoghi di arrampicata che siano inclusivi per tutti”.
Come declinate questi principii nei contesti dove siete attivi?
“L’applicazione di questi valori nell'arrampicata, in realtà, è abbastanza semplice, proprio perché è un movimento di rottura della società che nasce nello Yosemite tramite il movimento hippie. Questo è un movimento che, di per sé, cerca di creare una sottocultura all'interno della società. Ciò che facciamo noi è un atto generazionale, è una narrazione di come noi e i nostri coetanei stiamo cercando nell'arrampicata una via di fuga e un luogo dove stare bene, al di fuori di una società che ci carica di ansie, problemi, crisi economiche, sociali e molto altro. Quello che facciamo all'atto pratico è semplicemente cercare di avere rispetto nei confronti delle persone e dell’ambiente. Quando vai a scalare, la prima cosa da ricordare è che sei ospite in un luogo, e che i luoghi non ci appartengono, neanche la palestra di arrampicata dove andiamo abitualmente. Non è che perché ci andiamo sempre è nostra di diritto, è un luogo dove girano moltissime persone e bisogna avere rispetto nel viverlo. Questo è il nostro messaggio: vivi l’arrampicata come vuoi, ma ricorda che non sei solo”.
“L’arrampicata è 99% sconfitta”, scrive nel suo libro, Abituati a cadere. Come convive questa frase con l’odierna ‘società della performance’?
“Secondo me, ci convive proprio perché l'arrampicata ci ricorda che possiamo fare delle cose solo per il piacere di farle. Abbiamo smesso di giocare smettendo di essere bambini. È in quel momento che non abbiamo più fatto un qualcosa solo per il gusto di farlo, obbligandoci ad inserire sempre uno scopo alla fine delle nostre azioni. Nell'arrampicata ritroviamo il gusto di giocare. Questa disciplina si chiama, da sempre, ‘il gesto inutile’, perché non porta nessuna utilità al sistema produttivo. È attraverso questa inutilità che ognuno di noi può riscoprire il potere di compiere delle azioni solo per stare bene. Però, per iniziare a compiere questo percorso, bisogna anche mettersi nell’ottica di poter sbagliare. Proprio perché è inutile riusciamo ad accettare al meglio il fallimento, forse perché tra riuscire o non riuscire, alla fine, non cambia niente. Certo, riuscire ci piace, però quando torniamo a casa non siamo diversi né persone migliori. Arrampicare ci ricorda che i percorsi sono fatti di alti e bassi, e che hanno bisogno di fallimenti per raggiungere la conclusione. È a partire da elementi come questi che possiamo ricordarci che anche nella vita reale il fallimento non è definitivo, non è una sconfitta per sempre. Il fallimento, dal momento in cui siamo persone in divenire, fa parte del percorso”.
Qual è il rapporto tra arrampicata e alpinismo, ad oggi?
“L'arrampicata nasce come rottura dall'alpinismo, con l'abbandono degli scarponi, dei pantaloni alla zuava, del cameratismo. Nasce come rottura. Poi come spesso avviene, un po' ci dimentichiamo la storia e, nel mentre, il gesto si mischia con la realtà. Arriviamo così in Italia dove, con un po’ di confusione generale, ci sono arrampicatori che fanno alpinismo, alpinisti che fanno arrampicata, dove se arrampichi le persone non sanno cosa stai facendo esattamente. Da questo deriva anche una confusione valoriale che ha comportato l’ingresso nell'arrampicata di quelle pratiche negative che connotano l'alpinismo come riflesso dalla società. Spetta a noi ricordare che l'arrampicata nasce come rottura dall'alpinismo, come scelta di compiere questo gesto inutile. L’arrampicata non è un gesto di conquista degli spazi o della vetta. È un gesto di sport, di movimento, è un’interazione con i propri limiti e di scoperta interiore, ma anche di scoperta attraverso gli altri. È un gesto diverso, ed è qui che si inserisce la rottura. Noi viviamo in una società estremamente basata sulla conquista. Siamo sportivi occidentali, una civiltà coloniale entro la quale ci siamo abituati ad andare sul K2 e chiamarlo ‘la montagna degli italiani’. Condividiamo un'idea di appropriazione delle cose. Poi, io non sono contro l’alpinismo, così come non sono contro il turismo, ad esempio. Sono contrario ad alcune idee di turismo come, ad esempio, il turismo di massa che, declinato nell’alpinismo, comporta il lasciare centinaia di tonnellate di rifiuti pur di conquistare una vetta, inquinando le falde acquifere delle montagne più imponenti al mondo”.
A proposito di conquista e colonialismo, cos’è ‘Boulder no borders’?
“Il gioco di parole ‘Boulders no borders’ nasce nel corso di un evento che volevamo rendere diverso dagli altri. In palestra, abbiamo chiesto di tracciare le vie (ideare i movimenti per completare un percorso, ndr) senza cartellini che indicassero il grado del blocco (la difficoltà del percorso, ndr), così che i partecipanti dovessero confrontarsi rompendo molti limiti mentali che, solitamente, ci imponiamo. Ciò ha permesso a chiunque, nel corso dell’evento, di viversi il progetto concentrandosi sul gesto, sullo sport, sulla collettività, al di fuori delle limitazioni date dalla paura di non riuscire ad affrontare una via (il percorso da compiere per chiudere la sequenza di movimenti, ndr) solo perché il grado indicato è troppo alto. ‘Boulder no borders’ comprende tutte queste divisioni sociali e mentali, e tenta di abbatterle”.
Il vostro collettivo non rivela mai la difficoltà delle vie che affronta, come mai?
“Oggigiorno, sembra che il grado sia la cosa più importante di tutte. Così, ci dimentichiamo di tutto quello che c'è oltre ad una salita: la condivisione, il luogo, le sensazioni che abbiamo provato, la bellezza della linea. Molte persone, spesso, si lanciano su una linea un po’ più morbida solo per dire di aver raggiunto un certo grado. Può essere un ‘baule’ alto un metro, ma se sulla guida c'è scritto 7a (un grado di fascia avanzata, ndr) tutti lo devono provare per poter dire di aver chiuso un 7a. E questo va esattamente contro la logica del nostro sport, che nasce come disciplina di scoperta, di messa in gioco. Noi vogliamo togliere il grado dalla centralità che gli è stata data. Non dico che la narrazione della performance non debba esistere, specie nel mondo degli atleti, però dobbiamo renderci conto che è una narrazione dell'1% degli arrampicatori, cioè dei privilegiati, ed è inutile diffondere il concetto di ‘allenati che ce la puoi fare’. Godiamoci la scalata, godiamoci le linee, godiamoci tutto, cerchiamo di goderci tutto quello che c'è attorno, perché nessuno ci obbliga a farlo”.
Domanda bonus, c’è qualcosa che vorrebbe aggiungere?
“Una cosa che ho molto a cuore in questo periodo è il fatto che, secondo me, è importante rendersi conto che nell'arrampicata, così come nell'alpinismo, noi maschi e, a ricaduta, anche le donne, abbiamo sempre avuto un solo modello di ispirazione. La narrazione è sempre stata quella dell'uomo forte che va e conquista perché è il più forte di tutti, e ciò gli permette di raggiungere un determinato status. Credo che tutti noi abbiamo estremamente bisogno di cambiare questa narrazione e di creare nuovi modelli, poiché tutti noi siamo diversi e abbiamo bisogno di conoscerci e costruirci come persone. Ma non possiamo costruirci in modo diverso se abbiamo un solo modello. Abbiamo bisogno di nuova ispirazione, e quello che cerchiamo di fare coi Brocchi è anche dare visibilità a nuovi paradigmi o, comunque, cercare di dare una narrazione diversa nella quale tutti possano riconoscersi”.
Luce