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Tutte le prime volte di Mouhamed Alì Ndiaye. Dal Senegal a Pontedera per inseguire un sogno chiamato boxe

Tutte le prime volte di Mouhamed Alì Ndiaye. Dal Senegal a Pontedera per inseguire un sogno chiamato boxe

“Non mi chiamo certo Mouhamed Ali per caso”, afferma orgoglioso Mouhamed Alì Ndiaye, tre volte campione nazionale di pugilato in Senegal e vincitore degli assoluti italiani ed europei nei pesi super-medi. Nato a Pikine, in Senegal, Ndiaye ha affrontato una vera e propria corsa a ostacoli per coronare il suo sogno, quello di potersi allenare per diventare un professionista. Una storia lunga quarant’anni quella della stella del ring, durante la quale non ha mai spesso di combattere.

Mouhamed Ali Ndiaye, campione italiano ed europeo dei pesi super-medi
Mouhamed Ali Ndiaye, campione italiano ed europeo dei pesi super-medi

E se, fino al 2015, Ndiaye indossava i guantoni, adesso è il turno dei guanti protettivi dei Vigili del Fuoco di Pontedera, o delle emozioni che maneggia come mediatore culturale per conto della Croce Rossa italiana. Da anni, Mouhamed Alì porta avanti un impegno nel sociale indissolubile, senza mai dimenticare le proprie radici. Abbiamo parlato di queste e molte altre attività col boxeur italo-senegalese.

Chi è Mouhamed Alì Ndiaye? Può parlarci di lei?

“Mi chiamo Mouhamed Ali Ndiaye e sono originario del Senegal, ma sono arrivato in Italia nel 2000. Prima sono passato dalla Francia, poi sono arrivato prima a Brescia, da un cugino, e poi mi sono trasferito a Pontedera. Fino al 2002 sono stato un clandestino, non avevo documenti, e ho fatto il venditore ambulante fino a quando non ho incontrato una ragazza che è diventata mia moglie. Lei è italiana, viene dalla Sicilia. Ci siamo sposati ed è così che ho ottenuto i documenti”.

Come mai ha lasciato il Senegal?

“In Senegal sono stato campione nazionale di pugilato nel ’97, ’98 e ’99. Ho lasciato la mia città per realizzare i miei sogni, perché le possibilità del mio paese non mi avrebbero consentito di diventare campione del mondo, nonostante fossi un figlio d’arte. Anche mio padre, Moussa, è stato campione di pugilato del Senegal, non mi chiamo certo Mouhamed Ali per caso! Quando avevo un anno sono stato battezzato da Muhammad Alì, Cassius Clay, in Senegal, per questo porto il suo nome. Dopo i giochi di Sidney del 2000, che non sono andati bene, ho capito che, se fossi rimasto in Senegal, i miei sogni sarebbero svaniti”.

È riuscito ad ottenere continuità nello sport in Francia?

“No. In Francia ho ottenuto un visto Schengen di soli due mesi, poi sono riuscito a spostarmi in Italia da un cugino che faceva pugilato a Brescia. È lui che mi ha dato ospitalità prima di trasferirmi a Pontedera, dove ho raggiunto altri cugini. Brescia è una città di montagna e non riuscivo ad allenarmi con continuità. Inoltre, le palestre non si prendevano la responsabilità di farmi allenare. Per loro ero un clandestino, e non avevo documenti. Per questo mi sono trasferito a Pontedera, dove la cultura della boxe è forte e dove allenava Alessandro Mazzinghi, campione del mondo di pugilato”.

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Come è cambiato il suo rapporto con lo sport con la cittadinanza?

“Prima di ottenere la cittadinanza tutto era difficile. In occasione del referendum ho lanciato un messaggio per poter acquisire la cittadinanza più velocemente, l’ho fatto per il bene del paese in cui vivo. La cittadinanza dà alle persone la possibilità di raggiungere traguardi, di integrarsi ancor più velocemente e di dare il meglio, nel mio caso con lo sport. Senza cittadinanza ho dovuto aspettare due anni per ottenere il permesso di soggiorno, poi altri due anni dopo il matrimonio per ottenere finalmente i documenti. Sono tutti ostacoli che ti impediscono di fare molte cose come, nel mio caso, partecipare ai campionati”.

Quali risultati è riuscito a conseguire in Italia?

“Poco prima dell’ottenimento della cittadinanza, nel 2003, ero già nel giro della Nazionale ad Assisi. Poi, nel 2004, ho ottenuto formalmente la cittadinanza e ho partecipato agli ottantaduesimi assoluti a Maddaloni, a Caserta, diventando campione nazionale dei pesi super medi (fino a 75kg). Sono stato il primo senegalese nella storia d’Italia a vincere una competizione nazionale. Quel giorno, ho riportato Pontedera sul tetto d’Italia dopo 40 anni di assenza dai vertici della boxe”.

Mouhamed Ali Ndiaye durante il periodo di militanza in nazionale
Mouhamed Ali Ndiaye durante il periodo di militanza in nazionale

Secondo lei, come è cambiata l’Italia dal 2000 ad oggi in quanto ad accoglienza?

“Purtroppo, ho visto un profondo peggioramento negli anni. L’Italia deve capire che la diversità è una ricchezza. C’è chi arriva coi barconi, ci sono bambini e bambine nati e cresciuti qui, c’è chi lavora in Italia da tantissimo tempo, e sono tutte persone in cerca di una vita migliore. Tanti, nonostante siano nati in Italia, non riescono a ottenere la cittadinanza, e l’Italia invece di sfruttare queste opportunità per il bene del paese ostacola i percorsi nello sport, nello studio, nella cultura di chi vorrebbe solo raggiungere un sogno. Negandoti la cittadinanza, non puoi raggiungere i tuoi obiettivi”.

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E sul rapporto tra cultura e cittadinanza?

“Io sono d’accordo sul fatto che la cittadinanza non debba essere ‘regalata’. È giusto conoscere il paese in cui vivi, lo devi percepire, devi ambientarti, devi comprenderne la cultura, ma non devi sostituire la tua cultura con quella del paese nel quale abiti. Devi integrarti, ma senza perdere le tue radici. Per fortuna, in questo, la Costituzione consente a tutti di studiare e praticare la propria religione, ad esempio. Molte persone, in altri paesi, mandano i propri figli nel loro paese d’origine a studiare l’arabo o il Corano. La Costituzione garantisce queste libertà, ma l’Italia deve anche capire che la forza di città come Londra o di stati come gli Stati Uniti o la Germania è la multiculturalità”.

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Tornando alla boxe, pratica ancora sport o il sociale è diventato il suo impegno principale?

“Dopo aver subito il distacco della retina nel 2015 ho dovuto abbandonare il pugilato. Sono rimasto all’interno del circuito come allenatore in una palestra di Pontedera, ma il tempo da dividere tra famiglia e lavoro è sempre meno. Anche quando praticavo sport facevo dichiarazioni a favore dell’integrazione e della multiculturalità, ma ora il sociale ha un peso diverso. Vengo da un paese, il Senegal, dove il 47% della popolazione vive sotto la soglia di povertà”.

Quale strada ha deciso di intraprendere nel volontariato?

“Nel 2012 sono stato nominato ‘Ambasciatore di buona volontà per i disabili dell’Africa dell’ovest’, e dal 2006 sono diventato Vigile del Fuoco discontinuo della caserma di Pisa e di Pontedera. Sono stato anche un volontario della Croce Rossa, e ho collaborato con Geofor e con l’ex presidente Marconcini per un progetto destinato a donare un mezzo per il trasporto di persone disabili a Pikine, la città del Senegal dove sono nato e cresciuto”.

Ndiaye è il primo Vigile del Fuoco senegalese d'Italia
Ndiaye è il primo Vigile del Fuoco senegalese d'Italia

Quali altre iniziative ha portato avanti nel sociale?

“Dopo la consegna del mezzo ho fatto richiesta alla Croce Rossa e ai Vigili del Fuoco di Pisa per poter ricevere in dono altri automezzi dismessi, che non potevano più essere utilizzati. Nel 2018, i Vigili del Fuoco hanno donato due autobotti, mentre la Croce Rossa due ambulanze che abbiamo portato nella città di Touba. Dopodiché, abbiamo fatto richiesta negli ospedali per letti ortopedici, ausili di vario tipo, e abbiamo organizzato un nuovo viaggio in Senegal. Dal 2012 a oggi ho aiutato a portare 19 mezzi, tra ambulanze e autobotti, nel mio paese d’origine, il tutto grazie all’aiuto di Croce Rossa, Pubblica Assistenza, Misericordia e tutti coloro che mi hanno aiutato a consegnare mezzi che in Senegal fanno la differenza tra la vita e la morte”.

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Qual è stata la motivazione che l’ha spinta a entrare nei Vigili del Fuoco e nella Croce Rossa?

“Ho preso queste decisioni perché ho sentito di dover servire il paese in cui vivo, di dover essere utile. Nel 2006 sono andato all’ufficio di collocamento di Pontedera e ho visto il volantino per l’arruolamento nei discontinui dei Vigili del Fuoco. Ho detto, perché non faccio il corso, perché non dovrei rendermi utile? Sono diventato il primo Vigile del Fuoco senegalese d’Italia. Mi piace aiutare, seminare e poi raccogliere. Tramite la Croce Rossa ho fatto il mediatore culturale coi migranti durante i picchi degli arrivi, per poter conciliare le parti. Molte persone, ad esempio, fanno ricongiungimento familiare senza sapere quali documenti inviare. Ho ideato anche un progetto su scala nazionale per inserire mediatori culturali nelle scuole, negli ospedali e negli uffici”.

Pochi anni fa ha scritto un libro sulla sua vita, può parlarmene?

“Il libro si chiama ‘Mi chiamo Mouhamed Alì’, ed è stato scritto a quattro mani da me e Rita Coruzzi. È uscito nel 2019 per Piemme, ed è stato scelto da Amref e Coni per la lotta contro il razzismo e l’afrofobia nelle scuole. Ho firmato da poco il contratto che farà uscire entro fine anno un nuovo libro, intitolato allo stesso modo ma con un altro editore, nel quale verranno aggiunte nuove parti della mia vita, come la vita familiare e la morte di mio padre, il mio primo allenatore. Il motto della mia biografia è che le difficoltà non mancheranno, ma nessuno deve impedirti di lottare per i tuoi obiettivi. Il passato è passato, il presente è la vita in cui viviamo, mentre il futuro appartiene a Dio, ed è un futuro fatto di intrecci tra culture e realtà. Lancio un appello anche al Governo. Chiedo di non mettere i bastoni tra le ruote a chi può servire il paese, nelle scuole, negli ospedali, nelle forze armate, nella società. Tantissime persone sono ben integrate, tante famiglie di immigrati sono qua già da due generazioni. Non dare loro la cittadinanza non fa altro che aggiungere difficoltà a un percorso già di per sé complicato”.

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