Campo più largo con i cespugli, ma governare è un’altra storia


E se poi fosse solo un rimescolamento di voti a saldo zero? Il centrosinistra e quel che conta il Pd. La terza gamba e la leadership che non ci sono
Ho il sospetto che ai vertici, e tra i consiglieri dei vertici, del Partito democratico non abbiano considerato appieno le conseguenze di questa nuova ma in realtà eterna strategia di promuovere partiti alleati fuori di sé. Intendiamoci, dal punto di vista di matematica elettorale, è ragionevole pensare che una formazione di centro con un minimo di appeal (quindi un qualcosa ora inesistente) potrebbe portare a una futura coalizione progressista quei punti percentuali in più che mancano adesso per sopravanzare il centrodestra. Ma in politica esistono sempre effetti collaterali non previsti, eppure in questo caso prevedibili.
Per esempio, potrebbe succedere che dalla tenda liberal democratica di cui si parla (che fatica, trovare terminologie che non suonino o del tutto vuote o del tutto sproporzionate ai soggetti coinvolti) escano fuori nel tempo qualche volto, qualche idea, qualche slogan convincenti che colpiscano anche un target un po’ più ampio di quello prefissato. Potrebbe perfino funzionare, questo aggregato ora destinato a un ruolo ancillare. Potrebbe crescere oltre lo status di cespuglio. Certo, non molto. Ma magari abbastanza da risultare competitivo con lo stesso Pd su un segmento di mercato elettorale che ora viene dato per scontato, e non dovrebbe esserlo.
Si sa che gli elettori non “appartengono” a nessuno. Né quelli del Pd né gli altri. Quel 23 per cento che oggi viene chiamato “il miracolo” di Elly Schlein è sicuramente in parte merito del grande impegno della segretaria (per la parte recuperata alla delusione astensionistica). E’, poi, il non poco che resta della felice intuizione originaria di un partito che parlasse a tutti gli italiani e non solo ai fidelizzati. E’ in gran parte lo specchio di un presidio territoriale di amministratori locali vincenti che nessun altro ha. Dopodiché, con M5s e rossoverdi al filo del 20 per cento, non è pensabile che anche il 23 per cento del Pd sia tutto fatto di italiani di sinistra (non ce n’erano tanti neanche al tempo di Berlinguer): allora che cosa ha trattenuto fin qui gli elettori centristi dal mollare un partito dichiaratamente e intenzionalmente sbilanciato?
Escludendo che sia merito dell’attivismo di una minoranza interna tanto loquace quanto inconsistente nell’iniziativa politica, ci sono altissime probabilità che il maggiore argine alla destra del Pd sia stato eretto da chi si proponeva come alternativa liberal e si è comportato da gruppettaro esagitato mettendo in scena un rodeo di leadership da far impallidire Salvini 2019.
Il fallimento della coppia scoppiata Renzi-Calenda è stato fin qui anche il fallimento di tutte le strategie a tavolino, visto che non ha dato al centrosinistra nessuna terza o quarta gamba di una dimensione apprezzabile. In compenso, probabilmente, ha salvato la quota 20 di Schlein.
Ora ci si riprova. E se riuscissero? E se un successo anche limitato di queste manovre al centro offrisse agli elettori post-veltroniani l’alternativa fin qui inesistente? Potrebbe succedere che, senza mai raggiungere il 25 per cento che sembrava in tasca alle Europee, il Pd debba tornare indietro, felicemente in quanto, si potrebbe dire, intenzionalmente.
Ora, per amor di patria, non consideriamo la possibilità (pur esistente) che il saldo finale di tante ambizioni sia pari a zero, solo un rimescolamento di voti dentro al centrosinistra come succede da decenni nel centrodestra: vorrebbe dire perdere le elezioni e l’alternanza al governo, per la prima volta dal 1994.
Consideriamo invece l’ipotesi “migliore”, cioè che la “strategia Bettini” riapra a un centrosinistra multicolore le porte di palazzo Chigi. Festa grande. Poi però ci sarebbe da governare. Mettiamo pure tra parentesi la questione della premiership, tema troppo complicato e per di più legato alla riforma elettorale che sarà, se sarà. Guardiamo agli equilibri di quella futuribile maggioranza, alla sua efficienza, alla sua efficacia.
Conte, Franceschini, Renzi, Manfredi, Ruffini… loro e altri hanno qualcosa in comune: hanno già governato insieme, in ruoli diversi. Ma quel Conte bis del 2019 – la cui storia andrà scritta con acribia, quando saremo lontani e pacificati – al di là di pregi e difetti aveva una caratteristica importante: un partito leader al 32 per cento. Con un presidente del Consiglio giustamente primadonna, e i ministri di Pd e dintorni che in nome del premier si accollavano tutte le rogne peggiori, ben felici di un ruolo vassallo che però ricacciava indietro la destra e perpetuava una quanto mai immeritata occupazione del potere. Non era il massimo, non fu il massimo. Ma almeno era qualcosa, aveva un suo principio regolatore.
Quale sarebbe domani il principio regolatore di una coalizione di governo nella quale nessuno potrebbe neanche sfiorare il 30 per cento, visto che chi avrebbe potuto ambire a tanto ora sembra lavorare per autoridursi? (tant’è vero che non manca, dentro al Pd, chi in favore del centro vorrebbe liberarsi non solo di un po’ di elettori ma anche di un pezzo di gruppo dirigente). Questo è il rischio, a guardarla adesso. Che nel 2027 ci si trovi a scegliere tra il governo della famiglia Meloni e il governo dell’assemblea permanente dei collettivi, o un terzo inutilissimo continente a scelta. Non è un bel vedere, speriamo meglio.
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