In Canada è andata in scena la morte del G7

Il fallimento del summit
Nessun accordo sui dazi. Nessuno sull’Iran dopo il clamoroso voltafaccia di Trump. Niente su Gaza. Ma Meloni chissà perché esulta: “Siamo uniti”

Il G7 non c’è più, come potrebbe esserci una dichiarazione conclusiva dei suoi lavori? Non era prevista, del resto. Il decesso era annunciato con largo anticipo. Ce ne sono state sei in compenso, su questioni specifiche anche molto importanti come l’immigrazione e le catene di approvvigionamento ma senza andare oltre l’enunciazione dell’ovvio. La settima dichiarazione, di gran lunga la più importante di tutte, era già stata diffusa a metà sessione. Era quella sulla guerra in Iran firmata anche da Donald Trump ma a ridicolizzarla ci aveva pensato il presidente degli Usa in persona. L’inchiostro con il quale aveva firmato la richiesta di de-escalation era ancora fresco e già lui faceva il possibile per marciare in direzione opposta chiedendo la resa incondizionata degli ayatollah e ipotizzando l’intervento diretto dell’America nella guerra. Più de-escalation di così…
Ma The Donald non è stato il solo a stracciare metaforicamente il parto del G7. Il tedesco Merz è arrivato a ruota con quel fragoroso “Israele sta facendo il lavoro sporco per tutti” e anche qui quanto a de-escalation non c’è male. Macron, tipo permaloso, se l’era preso per i toni sprezzanti usati dall’americano nei suo confronti, insomma grandeur oblige, e tra i due i confini della rissa a distanza sono stati ampiamente oltrepassati. Ma non è solo questione personale. Macron dà voce davvero a una parte dell’Europa, quella che sottolinea sì “il diritto di Israele all’autodifesa” e si fa dettare dall’americano le righe che bollano l’Iran come “minaccia per la stabilità del Medio Oriente” ma preferirebbe non essere del tutto appiattito sulle posizioni di Netanyahu. Quanto la faccenda sia spinosa all’interno della Ue lo ha dimostrato ieri l’Alta commissaria agli Esteri Kallas. Visibilmente emozionata ha detto che fosse per lei varerebbe sanzioni contro Israele “ma rappresento i 27, so che non passerebbero e dimostrerebbero solo che siamo divisi”. Sincera.
Molto tesa e provata, Giorgia Meloni ha provato a esaltare gli elementi unitari: “Siamo tutti d’accordo. Tutti consapevoli che la principale fonte di instabilità nella Regione è l’Iran. Siamo tutti d’accordo sul fatto che non possa dotarsi di armi nucleari e sul diritto di difendersi di Israele”. Però “l’obiettivo è arrivare a negoziazioni”. Si vede che i suoi alleati hanno una concezione tutta loro della negoziazione. La premier italiana nei giorni di Kananskis ha cercato una via d’uscita per la crisi di Gaza. Giura di aver trovato ampie convergenze ma su cosa, su quale proposta reale, non lo dice. Idee confuse. In compenso l’accordo sull’Ucraina si è trovato facilmente. Anche perché se ne è parlato quando Trump aveva già preso il volo. Tutto il sostegno agli sforzi Usa per la tregua ma per i 6 rimasti l’ostacolo si chiama Putin e solo Putin. Il dipartito aveva fatto capire oltre ogni possibile dubbio di non vederla allo stesso modo e persino Giorgia, l’europea più vicina all’America Maga che ci sia boccia senza appello la proposta/provocazione di affidare proprio a Putin la mediazione tra Israele e Iran. “Non mi pare che possa assumersi il compito il leader di un Paese in guerra”. Ma di dichiarazioni finali sull’Ucraina non ce ne sono e basta questo a segnalare quanto la distanza tra le due sponde dell’occidente in merito sia in realtà un baratro.
Nulla di scritto neppure sui dazi di Trump. Meloni, che nella chiacchierata al volo con Don un po’ ha affrontato l’argomento, è ottimista: “Una soluzione si troverà”. Possibile. Forse probabile. Però a Kananskis non si è trovata e non ci si è neppure avvicinati al traguardo. Tariffe inferiori al 10% per Trump sono inaccettabili, o almeno data la tendenza dell’uomo a cambiare idea lo sono per ora. Per l’Europa è troppo, a meno che non si sottragga dal pacchetto un congruo numero di merci. La trattativa è possibile su alcune voci, molto meno su altre. Per Trump l’automotive non è solo una questione commerciale. Riportare le fabbriche dell’auto nella oggi desolata Detroit è il cuore della sua visione politica, l’identità stessa del trumpismo. La partita dei dazi è ancora lunga. Si chiuderà solo il prossimo 9 luglio, quando scadrà la “tregua” concessa da Trump e prima ancora, nel Consiglio europeo del 27 giugno, i capi di governo dovranno decidere tra la linea dura invocata soprattutto dalla Germania e dalla Commissione e quella più trattativista di altri Paesi tra cui in prima fila l’Italia. Comunque vada a finire, l’Occidente quale è stato sinora al momento non c’è più. Proprio come il G7.
l'Unità