La destra fa marcia indietro, sventato lo schiaffo ai lavoratori

Salta l'ennesimo colpo ai diritti
Stavano tentando l’ennesimo colpo al diritto del lavoro, ai danni dei lavoratori, per rendere ancora più difficile ottenere la tutela del proprio salario, in tutti i casi di crediti retributivi dovuti dal datore di lavoro.

Ecco la storia di un colpo di mano fallito. Di una marcia indietro del Governo e di una vittoria delle opposizioni e del diritto del lavoro. Dovrò prenderla da lontano. Con sentenza n. 63 del 1966, la Corte Costituzione affermò che – per quanto riguarda i crediti lavorativi arretrati – “la situazione psicologica del lavoratore” può indurlo “a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte è portato a rinunciarvi, cioè per timore del licenziamento”. Di conseguenza, la Corte dichiarò l’illegittimità costituzionale di quegli articoli del Codice civile che consentivano alla prescrizione del diritto alla retribuzione di decorrere già durante il rapporto di lavoro.
L’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) – come noto – ha previsto per le aziende sopra i 15 dipendenti che il Giudice, accertata l’illegittimità del licenziamento, disponga in ogni caso il reintegro nel posto di lavoro. Che cosa significa? Che, in sostanza, l’Art. 18 ha introdotto la stabilità del posto di lavoro e posto un argine solido alla ricattabilità di lavoratori e lavoratrici. Ecco perché, a quel punto, la Corte ha precisato (sentenze 163/69 e 174/72) che quando vi sia la stabilità del posto di lavoro, possa decorrere la prescrizione di 5 anni, in quanto il lavoratore ha una forza che gli consente di non temere il licenziamento. Si supponeva, cioè, che per i dipendenti delle grandi imprese non sussistesse più il principio del metus (“timore”), che potrebbe impedire di fare valere un proprio diritto in costanza di rapporto. Ecco perché, secondo la nostra giurisprudenza, per tutti i lavoratori di imprese sotto i 15 dipendenti era al contrario possibile attendere la cessazione del rapporto prima di fare valere il diritto rispetto alle differenze retributive arretrate. Fino a quando, nell’ordinamento italiano, l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori è stato pienamente efficace, la Corte Costituzionale ha sempre affermato che – per le imprese sopra i 15 dipendenti – la prescrizione dei crediti lavorativi, ovvero il tempo in cui un lavoratore può far valere il suo diritto rispetto a differenze retributive arretrate, decorre già in costanza di rapporto proprio grazie a quella tutela.
Da quando la legge Fornero ha dato una spallata all’articolo 18, riducendo la possibilità di reintegro, la Cassazione ha esteso il principio del metus alle grandi imprese: significa che, anche in questi casi, la prescrizione dei crediti lavorativi non decorre più in costanza di rapporto, quando il lavoratore ha paura a fare valere i suoi diritti perché potrebbe essere licenziato, e gli arretrati si possono chiedere fino a 5 anni dopo la fine del rapporto di lavoro. Facciamo un esempio: un dipendente di una grande azienda ha ottenuto un premio di produzione, che però non gli è stato pagato. Non osa chiederlo, perché teme ritorsioni da parte del datore, ovvero teme di essere licenziato. Bene, la giurisprudenza lo tutela, perché gli consente di fare la richiesta anche dopo, quando non è più dipendente di quell’azienda e non può subire ritorsioni. Nei giorni scorsi, la maggioranza in Senato ha tentato un colpo di mano contro lavoratrici e lavoratori, “nascondendolo” in un emendamento al disegno di legge di conversione del DDL n.1561 (cosiddetto “decreto ILVA”). Ha tentato cioè di imporre per legge la prescrizione in costanza di rapporto per le grandi imprese, e l’invio di una lettera da cui sarebbero rimasti al lavoratore solo 180 giorni (ossia 6 mesi) per proporre un ricorso al Tribunale. Significava costringere il lavoratore a scegliere se far causa al datore che gli paga lo stipendio o rinunciare a far valere i propri diritti per quieto vivere.
L’emendamento puntava, inoltre, a esautorare i giudici dal potere di accertare l’adeguatezza della retribuzione, come vorrebbe l’Articolo 36 della Costituzione, in base al quale “il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. La misura voluta dalla destra avrebbe addirittura impedito il pagamento delle differenze arretrate anche in caso di accertata “grave inadeguatezza”, annullando di fatto quelle sentenze favorevoli al lavoratore o alla lavoratrice. Stavano tentando l’ennesimo colpo al diritto del lavoro, ai danni dei lavoratori, per rendere ancora più difficile ottenere la tutela del proprio salario, in tutti i casi di crediti retributivi dovuti dal datore di lavoro. L’ennesimo favore alle imprese che cercano di aggirare principi e sentenze sulle giuste retribuzioni delle lavoratrici e dei lavoratori. L’ennesimo attacco alla magistratura, in aperto contrasto con le sentenze della Corte di Cassazione e finalizzato a limitare il campo di azione del giudizio di merito. Siamo riusciti a fermarli. In Senato, le opposizioni hanno alzato le barricate; Alleanza Verdi Sinistra ha presentato un emendamento soppressivo, a prima firma Magni. Dopo la battaglia parlamentare e le denunce pubbliche degli scorsi giorni, Fratelli d’Italia ha infine ritirato quell’emendamento scellerato. La mobilitazione ha funzionato. Le denunce, la pressione, la voce collettiva: tutto questo ha avuto un impatto. Ci riproveranno, perché questa destra odia i lavoratori, ma soprattutto è sempre prona di fronte alle pressioni delle imprese. Bene, troveranno di nuovo la stessa forza a sbarrargli la strada.
l'Unità