Le primarie Schlein-Conte si fanno su Gaza. Retorica, kefiah, e alla fine vince Crosetto che sembra Churchill


Il racconto
Si parla di Gaza, il viceconsole italiano viene ferito, ma in Aula è corsa a "sterminio", "genocidio", con Conte e Schlein che gareggiano. Scontro violento Mulé-Bignami. E Crosetto: "Mai alla smilitarizzazione dell'Ucraina, su Israele pesa la storia"
Sono una coalizione, sono i Ciceroni a Gaza. Una giornata da unità nazionale scade nella Norimberga dell’iperbole, nello scontro Mulè-Bignami, l’Alì-Foreman del “regolamento”. A Jenin viene ferito, per errore, il vice console italiano dall’esercito israeliano, Tajani convoca l’ambasciatore, ma alla Camera si riciclano kefiah, si celebrano le primarie da ministro degli Esteri fra Conte e Schlein. Contiamo quattordici “genocidio”, una dozzina di “pulizie etniche”, sei “Meloni complice”, sette “sterminio”. Arriva Guido Crosetto e giganteggia, e non per statura, quando dice: “Ci sono temi che dovrebbero unire un paese. Israele deve fermarsi. Non accetteremo mai la smilitarizzazione dell’Ucraina”. Con un bull dog in braccio sarebbe già Churchill.
Non è vero che le tragedie uniscono il paese, qui, le sciagure, se estere, servono a fare il Giordano largo della retorica. In Aula si parla di Gaza, ma il dibattito si trasforma nel Netanyahu boia, nel secchio dell’invettiva. Il deputato Marco Grimaldi di Avs da giorni indossa la kefiah, che quantomeno lava ogni mattina, come se fossimo a Ramallah, e giustamente Luigi Marattin, cofondatore del partito Liberaldemocratico, che dovrebbe stare con Pd-Avs-M5s Iv e Calenda, si domanda: “Posso presentarmi agli elettori con chi indossa la kefiah?”. Tajani, che scrive ormai anche sui muri “cessate il fuoco”, che soffre e che con fatica si allontana, come può, da Israele, è assente perché è a Bruxelles, insieme a Sergio Mattarella, e subito dai banchi: “Non c’è, il ministro non c’è!”. Prende la parola Giuseppe Conte, che è l’erede di Gassmann, quello vero, il Vittorio dell’enfasi, e tira fuori un vecchio tweet del 2014, di Meloni, che scriveva: “Un’altra strage di bambini a Gaza. Nessuna causa è giusta quando si sparge il sangue degli innocenti”, e ci monta dieci minuti di monologo da teatro antico, come l’Antigone, perché “scandiamolo bene, c’è solo una parola: genocidio”.
Se non fosse impegnato a trovare il modo di fare il candidato premier sarebbe perfetto per recitare insieme a Massimo Popolizio, con il suo classico, “graduidamende”, perché, sempre Conte, “state difendendo gratuitamente un criminale, siete i suoi avvocati pro bono”. Si infilano, lui e Schlein, nella ferita di Meloni (ma non è di tutti?) su questo Medio Oriente, che riconosce Crosetto, si porta i fantasmi dei nostri anni. Dice a tre giornalisti, due veri, e uno mezzo guercio, che “su Israele, Italia e Germania sentono il peso della storia, sappiamo cosa è avvenuto novant’anni fa” e si riferisce anche all’astensione di Italia e Germania in sede Ue, che non hanno votato per rompere gli accordi con Israele. Dice ancora Crosetto, che forse avrà rivisto La Grande Illusione di Renoir, “che maggioranza e opposizione, entrambi, dovremmo chiuderci in una stanza, e uscire dopo con una posizione unica, condivisa, su grandi temi, su Israele e Gaza, perché alla fine ci rimette il Paese”.
Passa Peppe Provenzano-Ingrao (Ingrao è il cognome della madre) il responsabile esteri del Pd, a cui puntualmente Schlein toglie la parola, perché in Aula deve sempre intervenire lei (ma non erano una squadra?) e ci tiene a dire che “il Pd anche sull’Ucraina ha una posizione ferma”. Ma se è ferma, chiara, perché non andare da Crosetto e abbracciarlo quando esclama: “Da ministro, non accetterò mai la smilitarizzazione dell’Ucraina, che equivale a regalarla a Putin”. Lo scandisce prima di annunciare in Aula, al Question Time, che la proposta Nato è di aumentare la spesa militare “al cinque per cento, ma deciderà il Parlamento”, ma finisce di dirlo e viene insolentito da Riccardi, del M5s, che gli dà del lobbista, e che disegna complotti alla Eric Ambler, perché “Meloni avrebbe incontrato nel 2017 Larry Fink e convinto ad entrare in Leonardo”.
Non leggono nulla, non leggono giornali, a volte, non leggono neppure l’intervista del collega, lo racconta pure la strepitosa Simonetta Matone, “io ero il capo segreteria del ministro Vassalli e ogni mattina, al ministero, leggevamo almeno dodici giornali, interi, ma oggi…”, se li vedi con un libro sembra quasi che sia Natale o sono i soliti Federico Freni (gira con il nuovo Portnoy di Roth) Francesco Filini, Gianni Cuperlo, Enzo Amendola che ne ha scritto uno e quasi se ne vergognava (lo presenta, il 28 maggio, a Milano, con Fitto e Gentiloni e forse, forse…) lui che pensa: “L’Italia è un popolo di sentimenti umanitari. Gaza fa male a Meloni, fa male a Tajani, che teme Israele”. Si spacca la testa il mondo ma solo qui, Gaza, è la clava, di Schlein, sul governo, perché: “Noi chiediamo la ferma condanna, l’embargo totale, il suo silenzio, presidente Meloni, è complice. C’è un disegno di deportazione criminale”. E bisogna riconoscerle che come ministro degli Esteri potrebbe forse elevarsi a nuova Emma Bonino, ma può bastare? Gaza, può bastare a vincere le elezioni? Perfino Marco Damilano, il Gramsci bianco di Schlein, dice che non basta, che “senza una scossa rischia di esserci un epilogo scontato”. Meloni è imbattibile? A Trieste la destra litiga su Fedriga, il vicepresidente della Camera, di FI, Giorgio Mulè, viene rimproverato dal capogruppo di FdI, Bignami, di avere simpatie a sinistra, si prendono a colpi “di regolamento”, in pratica Mulè viene accusato di essere un mezzo fellone, ma, Bignami, caritatevole: “Presidente, glielo lasciamo fare”. Della strage di Gaza, che unisce la sinistra, resta solo la striscia dei petti in fuori, solo loro: i Ciceroni a Gaza.
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