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Mille giorni di governo Meloni: la debolezza dove conta di più, cioè nella vita quotidiana degli italiani

Mille giorni di governo Meloni: la debolezza dove conta di più, cioè nella vita quotidiana degli italiani

il girotondo

La capacità di governare la quotidianità sembra, per ora, un limite di questo governo. Confindustria, sindacati, medi e grandi poteri: tutto in agenda, tranne i problemi di chi sta fuori dai palazzi

È un giudizio abbastanza diffuso che il principale tallone d’Achille di Giorgia Meloni alla fine sia l’agenda di politica interna. Vuoi per il fitto calendario di incontri internazionali della premier vuoi per la palese debolezza della sua squadra il governo non brilla certo per tempestività ed efficacia nel far fronte ai dossier nazionali. Nell’elaborare soluzioni per i problemi che via via si presentano all’incasso. L’impressione che si ha è che Meloni investa più energie in chiave di allargamento del perimetro “nominale” di consenso e influenza della sua compagine (vedi l’appoggio al Monte dei Paschi nella conquista di Mediobanca) che nell’applicazione ai temi del day by day degli italiani. Meloni infatti ha sicuramente ottenuto lusinghieri successi assicurandosi la benevolenza sia di Confindustria sia della Cisl e allargando così alla società civile organizzata – i corpi intermedi – la personale area di empatia ma è stata poi debole nel prevedere e predisporre politiche di vero “scambio”. Prendiamo il caso degli industriali: li blandisce ogni volta che li incontra ma nell’ultima legge di bilancio ha tolto risorse per i settori in crisi (il cosiddetto Fondo Auto), ha cancellato l’Ace e ha restituito poco o niente. Il famoso Ires premiale – diventato nelle settimane di dicembre l’oggetto del desiderio di Confindustria – si è rivelato un bluff. Una misura inapplicabile.

In un’occasione di incontro in Sala Verde Meloni ha buttato sul tavolo, sorprendendo gli interlocutori, la mega-cifra di 25 miliardi di aiuti alle imprese salvo poi non farne più cenno in alcuna altra occasione. Se ne è dimenticata contando sulle amnesie della stampa e dell’opposizione. Non è nemmeno riuscita a far meglio di quanto aveva ottenuto Carlo Calenda ministro con Industria 4.0 perché il suo Transizione 5.0 è rimasto nella sostanza un brutto anatroccolo e un’occasione sprecata per far ripartire gli investimenti. Si obietterà a sua difesa che non è colpa della premier (sempre costretta a viaggiare) ma degli Urso e dei Lollobrigida che pure ha scelto pescando i migliori nei ranghi del partito che più conosceva. E invece no.

La capacità di governare la quotidianità appare – per ora – un limite della sua leadership politicista. Da donna cresciuta dentro le segrete stanze di un partito – per altro minoritario e poco aperto alla società – sembra averne assorbito i limiti per così dire strutturali. Degli italiani, dei problemi con le liste di attesa della sanità o del carrello della spesa che corre più dell’inflazione, dei trasporti a singhiozzo o dei taxi che non si trovano, sa poco. O comunque le arriva all’orecchio troppo poco. Così per lei è più importante nominare uno Sbarra a capo di un’inesistente politica per il Sud che elaborare una vera politica di scambio con la Cisl e gli altri sindacati. Solo politics, niente policy. Per ora il consenso non ne soffre ma resta sul campo l’incapacità di affrontare i “problemi” e di circondarsi di veri esperti. Non è poco.

Dario Di Vico

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