Occidente Game Over: sui dazi l’UE s’inchina agli USA, sottomissione dell’Europa a Trump

La disfatta sui dazi
Paradossalmente questa partita potrebbe rafforzare chi più di tutti ha pensato che la trattativa non dovesse esserci affatto: la destra sovranista

Resa, capitolazione, inchino: sono solo alcuni dei vocaboli utilizzati in queste ore. Addirittura il sempre prudente Primo ministro Francese, François Bayrou, ha parlato esplicitamente di sottomissione. Avvenuta nella cornice tutt’altro che evocativa del resort Golf Club di Turnberry in Scozia, dove Trump ha deciso di mandare definitivamente la palla in buca di una guerra commerciale dichiarata unilateralmente a mezzo mondo e soprattutto al suo alleato naturale, l’Europa. Che ancora una volta si mostra accondiscendente, al netto di proclami sempre più timidi alla vigilia di vertici internazionali in cui rivendica un’autonomia strategica che non appare in grado di esercitare. E lo fa persino recandosi in una proprietà all’estero del Presidente USA, svilendo anche i protocolli che sono pur sempre politica e dunque diritto.
Sembra che l’unico successo che abbia portato a casa Ursula von der Leyen sia stato quello di sedersi direttamente lei accanto al tycoon americano, facendosi riconoscere come unico interlocutore dopo che per mesi aveva sudato per avere un appuntamento a Washington e si era immaginata una frammentazione dei negoziati, dove ciascuna nazione parlava vis-à-vis con gli USA aspettando la grazia imperiale di qualche sconto ad hoc. Linea che era stata caldeggiata inizialmente dalla Meloni, candidatasi improvvidamente a fare da ponte con Trump: meno europea degli europei, più filoatlantista dei filoatlantisti, non più underdog ma little dog della Casa Bianca. Tutte le carte in regola per provare a salvarsi dalla slavina, non è andata proprio così. E’ finita che la trattativa è stata unica, ma il risultato disastroso. Compresa una giustificazione postuma dei dazi da parte di una Presidente della Commissione europea sempre più deferente: “noi abbiamo un surplus commerciale, gli Stati Uniti un deficit e dobbiamo ribilanciare”. Il che la fa scivolare immediatamente in “modalità Rutte”, il neo segretario generale della NATO, che ormai parla più o meno come un dipendente di Trump senza nemmeno preoccuparsi di non apparire tale.
Il 15 per cento dei dazi era da considerare una linea rossa per il Ministro dell’Economia Giorgetti, anche se già il 10 aveva suscitato grande allarme tra i sindacati e Confindustria che vaticinava 118000 posti di lavoro in meno. Oggi siamo al 15, con la farmaceutica ancora da trattare, la moda e l’agroalimentare danneggiati in maniera sensibile. E poi il settore metalmeccanico, dove la Fiom oggi denuncia circa 30 miliardi di esportazioni a rischio. Compreremo le armi e il gas di Trump, per un valore complessivo di oltre seicento miliardi per il primo settore, settecentocinquanta per il secondo: qualcosa che assomiglia più a un’estorsione che a un affare. L’obiettivo statunitense è riequilibrare la bilancia commerciale e reindustrializzare l’America anche con i soldi degli europei che effettueranno investimenti e delocalizzazioni sul proprio suolo. Non c’è dubbio che Trump se ne torni da questo week end scozzese con un successo almeno paragonabile al 5 per cento strappato sulle spese militari in sede NATO. Il che dimostra che l’utilizzo del bastone contro gli alleati europei per il momento funziona. E poco importa che gli stessi si irritino facilmente davanti ai suoi eccessi verbali, si tratta di “ammuina” a fini interni: quello che conta è il risultato e quando la guerra commerciale la vinci senza nemmeno giocarla significa che quello seduto a capotavola sei tu.
Non è peregrino pensare che questa partita finisca per rafforzare paradossalmente chi più di tutti ha pensato che la trattativa non dovesse esserci affatto, che il ripiegamento delle attività commerciali avrebbe aiutato le nazioni a fortificarsi, che l’ondata d’urto trumpiana andava assecondata perché avrebbe accelerato la crisi delle istituzioni europee fino a demolirle. Ovvero la destra sovranista, che si candida a risolvere i problemi che lei stessa ha creato ed alimentato. Sempre dalla parte della soluzione, dopo aver generato il caos. Chi ha per primo disarmato il negoziato europeo? Gli amici di Trump. Quando Meloni va alla Casa Bianca e in premessa mette fuori dal menu la tassazione delle big tech sta dicendo nei fatti che ha deciso di trattare con le mani legate. Eliminando dal tavolo quello che fa più male al tycoon, anche dal punto di vista del blocco di interessi economici che lo ha sostenuto e finanziato durante le elezioni presidenziali: multinazionali che fanno enormi profitti in Europa pagando aliquote inferiori a quelle di un normale operaio metalmeccanico. La sconfitta sta qui: accettare fino in fondo il punto di vista americano limitandosi ad eseguirlo, far veicolare il messaggio che l’accordo è tutto sommato “equo” ed aspettare che passi la nottata, perché tanto tra tre anni ci sarà un altro Presidente.
Non c’è dubbio che sia una logica sconcertante, anche perché la scelta dell’Europa di mollare la strada del “Green new deal” e riconvertirsi al “War new deal” accentua la dipendenza dall’alleato americano. Te lo lascia in casa definitivamente come ospite sgradito ma necessario, a cui si perdona tutto compreso non rifare le lenzuola e lasciare i panni sporchi per terra. Qui emerge la trappola della subalternità. Che non è semplice servilismo, ma mancanza di una idea alternativa di economia e di relazioni internazionali. Questa sfida l’ha vinta Trump perché sapeva che l’Europa non avrebbe reagito aprendosi altrove, a partire dall’America Latina e all’Asia. E sa che un’Unione che si deindustrializza e scommette su un’occupazione a basso valore aggiunto può produrre uno shock definitivo nelle società europee. Che resta il vero obiettivo di Trump, la sua costituency ideologica: scassare tutto ciò che è multilateralismo, restaurare una politica estera e commerciale fondata sui meri rapporti di forza che degrada il diritto internazionale e la diplomazia a semplice accessorio del passato. Non è un caso che del cinquantesimo anniversario della Conferenza di Helsinki quasi nessuno parli, impegnati come siamo a contribuire a un disordine mondiale che non espelle più dal proprio orizzonte la teologia della guerra come strumento salvifico.
Siamo qui, occorre salvare ancora una volta il progetto europeo da chi lo interpreta come politicamente “neutro”, poco più che un grande mercato sempre esposto ad attacchi ostili, dove si impongono vincoli di bilancio che uccidono un modello sociale che ha garantito democrazia e inclusione delle classi sociali subalterne. Servirebbe un momento di verità, un bilancio di questa folle rincorsa al trumpismo, partendo innanzitutto dal punto di vista di chi lavora e produce. Verso cui va messo in campo un vero e proprio “scudo” sull’occupazione e sui salari, paragonabile alle misure che furono assunte durante la crisi del Covid, quando si previdero ristori, cassa integrazione anche per le imprese di un solo dipendente, blocco dei licenziamenti. Va sostenuta la domanda interna a partire dall’Italia – che sarà tra i paesi più colpiti dalla guerra commerciale in quanto Potenza esportatrice – dove però questa preoccupazione non abita a Palazzo Chigi che affida la politica economica esclusivamente alla mano invisibile del mercato. E dunque non muove un dito per rinnovare i contratti scaduti, non rafforza il welfare, non introduce il salario minimo, non mette un euro in più sugli ammortizzatori sociali. Con meno di questo, la destra accompagnerà un declino sulle cui macerie proverà a fare campagna elettorale. Teniamoci pronti.
*Parlamentare, direzione Pd
l'Unità