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Terzo mandato, la lezione di storia della Consulta

Terzo mandato, la lezione di storia della Consulta

A lezione di storia dalla Consulta

La Consulta ha ribadito che il tetto massimo di due incarichi consecutivi è a fondamento della democrazia. Ora il governo impugnerà anche la legge trentina?

Photo credits: Alfredo De Lise/Imagoeconomica
Photo credits: Alfredo De Lise/Imagoeconomica

Per quanto ampiamente prevedibile, la sentenza con cui la Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la legge regionale campana che avrebbe permesso all’attuale presidente De Luca di candidarsi una terza volta merita particolare attenzione: per il presente ma, anche e soprattutto per il futuro. Essa fa giustizia – speriamo una volta e per tutte – dell’illogico argomento per cui, così come per i parlamentari e i consiglieri regionali, i cittadini avrebbero diritto di eleggere Presidenti di Regione e Sindaci per quante volte vorrebbero.

Come se non fosse a tutti evidente che costoro, per il potere che concentrano nelle loro mani, non possono certo essere paragonati ai membri di un’assemblea legislativa. E quando tale potere permane per troppo tempo, vi è il rischio che esso si consolidi fino a tal punto da far cadere in tentazione, come dimostrano le vicende Formigoni e Galan, entrambi Presidenti delle rispettive regioni per tre mandati (1995-2010). Non è affatto un caso che, a livello comparato, nelle democrazie in cui il vertice del potere esecutivo è eletto direttamente dagli elettori (come i Presidenti di Regione o i Sindaci) si prevede sempre il divieto di terzo mandato, ora in assoluto (Stati Uniti), ora consecutivo (Francia). Come non è affatto un caso che l’abrogazione del limite del doppio mandato è sempre stata la spia che ha segnalato l’involuzione del regime politico in chiave autoritaria.

Così è stato: in Venezuela nel 2009 per consentire la rielezione di Chavez; in Nicaragua nel 2014 per rieleggere Ortega; in Russia nel 2020 dove i mandati precedenti di Putin sono stati azzerati per permettergli di restare in carica fino al 2036; nel Salvador nel 2024 a favore di Bukele; in Egitto (2019) per consentire ad al-Sisi di restare in carica fino al 2030 e, non ultimo, in Cina nel 2018 per consentire il terzo mandato a Xi Jinping. Pericolo di involuzione autoritaria che può intravvedersi nelle intenzioni di Trump e Erdogan di abrogare, se non addirittura di non rispettare, il divieto costituzionale di terzo mandato. Come affermato dalla Corte costituzionale, il divieto di terzo mandato, ancorché posto a livello legislativo anziché costituzionale, è per sua natura un principio democratico fondamentale in materia elettorale, come tale obbligatorio e, dunque, immediatamente applicabile a tutte le Regioni, anche in assenza di un suo espresso recepimento, tanto più nella regione Campania che nel 2009 aveva approvato la propria legge elettorale senza introdurvi alcuna deroga.

Con esso, infatti, si vuole controbilanciare il rilevante potere politico che chi viene eletto al vertice degli esecutivi regionali o comunali riceve direttamente dagli elettori. Si tratta, dunque, di un “ponderato contraltare” che funge da “temperamento di sistema” con cui il legislatore statale ha individuato il punto di equilibrio tra elezione diretta dell’esecutivo e conseguente concentrazione del potere in capo ad una sola persona. Tale divieto si radica in ultima analisi nel principio sancito nel primo articolo della nostra Costituzione secondo cui la sovranità appartiene al popolo ma questi deve esercitarla nelle forme e nei limiti da essa previsti. Non è questione – specificano opportunamente i giudici costituzionali – di assetto di governo. È questione di democrazia perché si tratta di evitare che il mancato avvicendamento nella carica di presidente di Regione provochi forme di stratificazione e di consolidamento del sistema di potere che finiscano per ledere l’effettiva parità di chance tra i candidati, la libertà di voto degli elettori, la corretta competizione elettorale, il necessario fisiologico ricambio della rappresentanza politica; insomma, in una parola sola, la democraticità di regioni ed enti locali.

Se così è, cioè se siamo di fronte ad un principio fondamentale ineludibile, bene farebbe il Governo a trarne le dovute conseguenze, peraltro in coerenza con il proprio progetto di riforma sul cosiddetto premierato che giustappunto prevede il divieto di terzo mandato per il presidente del Consiglio eletto direttamente dagli elettori. Il Governo, dunque, dovrebbe impugnare la recente legge della Provincia autonoma di Trento che, facendo leva sull’autonomia speciale, vorrebbe consentire il terzo mandato. Autonomia speciale che non può essere invocata quando si tratti di stabilire chi può essere candidato (c.d. elettorato passivo), come ha chiarito la stessa Corte costituzionale (60/2023) censurando la legge elettorale sarda che avrebbe voluto consentire in quella regione il terzo mandato dei Sindaci.

Se così non fosse, ricadremmo nel sospetto che il Governo impugni le leggi regionali a seconda della convenienza politica del momento anziché per ragioni di diritto, in base al famoso motto italico per cui le leggi si applicano ai nemici e s’interpretano per gli amici. In effetti – e qui De Luca ha ragione – altre due Regioni (il Veneto nel 2012 e il Piemonte nel 2023) hanno approvato leggi regionali che rispettivamente hanno consentito e consentirebbero al Presidente della Regione un terzo mandato, senza che esse siano state impugnate dal Governo dell’epoca. Un’evidente e irragionevole disparità di trattamento, alla quale però – precisa in conclusione la Corte – chiunque (primo fra tutti un candidato sconfitto dal Presidente della Regione uscente candidatosi per la terza volta) potrebbe porre rimedio sollevando questione d’incostituzionalità non per via diretta (come può fare il Governo) ma in via incidentale dinanzi ad un giudice. Un ricorso di sicuro successo, perché su chi può essere eletto la legge deve essere uguale per tutti e su tutto il territorio nazionale.

l'Unità

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