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Tutte le bugie di Meloni sul caso Almasri: così la premier è fuggita dal Parlamento mandando i suoi ministri a mentire

Tutte le bugie di Meloni sul caso Almasri: così la premier è fuggita dal Parlamento mandando i suoi ministri a mentire

Prima la fuga poi la faccia

Ora annuncia di voler sedersi “accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere”. Ma la premier pur di non riferire in Aula è sempre fuggita

Foto Roberto Monaldo / LaPresse
Foto Roberto Monaldo / LaPresse

Si è sempre rifiutata di riferire in Parlamento sul caso Almasri quella stessa Giorgia Meloni che ora annuncia di voler andare a sedersi “accanto a Piantedosi, Nordio e Mantovano al momento del voto sull’autorizzazione a procedere”. Punta a uno show a favore di telecamera in Aula, certa di non poter aver sorprese dalla maggioranza. Ma Giorgia Meloni dal Parlamento è sempre fuggita.

Torniamo al gennaio scorso: cartelli con conigli neri in fuga sono alzati dal banco delle opposizioni che chiedono sia la presidente del Consiglio a spiegare in Aula perché il capo torturatore libico Almasri, alleato del governo Meloni, il 21 gennaio sia stato sottratto al giudizio della Corte penale internazionale con un Falcon dei servizi italiani che non può alzarsi in volo senza il via libera della presidenza del consiglio dei ministri e del sottosegretario Alfredo Mantovano che ha la delega ai servizi. Per settimane e settimane viene chiesta la sua presenza, ma lei – che ora sbandiera di non essere un Conte qualsiasi e di non lasciare allo sbaraglio i suoi ministri – a fare una figura tapina in Aula ha preferito mandare il ministro della Giustizia Carlo Nordio e il ministro degli Interni Piantedosi mentre alcuni dei sopravvissuti alle sevizie di Almasri in Libia dicevano in conferenza stampa a Montecitorio “Io sono stato torturato da Almasri nella prigione di Mitiga che lui dirigeva”. E certo. Non porta voti tricolori dover spiegare in Parlamento, in diretta tv, di presiedere un governo sotto ricatto dei tagliagole libici che possono rivelare dettagli sconvenienti se parlano dei loro rapporti con i governi italiani (non solo con questo eh, si parte – e si prosegue – con Minniti, ministro del governo Gentiloni). Non si fa bella figura a dire in Aula di non poter rivelare gli accordi presi con il capo milizia Almasri che si fa chiamare generale da quando il governo italiano lo paga per far sparire nel lager libici migranti e che per questo motivo, da presidente del Consiglio, si è da lui e dai suoi banditi tenuti per il collo.

La Giorgia Meloni che ora rivendica “di essere stata preventivamente informata e di aver condiviso la decisione assunta” sul trattamento da riservare al torturatore è la stessa Giorgia Meloni che il 25 gennaio – quando era ancora caldo lo schiaffo all’Italia delle foto di Almasri sotto le scalette del Falcon col tricolore a Tripoli accolto da banditi in tripudio – non potendo sottrarsi a un velocissimo incontro con i giornalisti mentre è fortunatamente per lei lontano dall’Italia, a Gedda, dice: “La decisione è stata dei giudici, non del governo”. La Giorgia Meloni che scrive ora “è assurdo chiedere che vadano a giudizio Piantedosi, Nordio e Mantovano, e non anche io, prima di loro” è la stessa che nel mezzo della bufera si è nascosta sottocoperta a Palazzo Chigi e ha spedito in Parlamento al posto suo prima Nordio, a dire che aveva bisogno di tempo per leggere le carte della Corte penale internazionale perché erano scritte in inglese e contenevano errori, e poi Piantedosi a non rispondere a due interrogazioni sul Falcon dei servizi fatto decollare il 21 gennaio da Ciampino per esser pronto a Torino a prendere a bordo il torturatore libico Almasri già molto prima che la Corte d’appello ne disponesse la scarcerazione perché Nordio non aveva richiesto il suo arresto come avrebbe dovuto fare per legge.

La baraonda creata dalle mille versioni che il governo Meloni ha dato su questa gravissima vicenda non riesce a nascondere l’evidenza cristallina dei fatti. E’ questione di orari, c’è poco da imbrogliare. Basta l’orario di decollo del Falcon per mostrare che la decisione di sottrarre il cittadino libico (come lo chiamano Giorgia Meloni e Matteo Piantedosi) alla Corte Penale Internazionale era stata già presa dal governo prima dell’annuncio della non convalida delle misure cautelari da parte della Corte d’appello di Roma competente sulle richieste della Corte dell’Aja. Perché dopo la scarcerazione un ricercato dalla Cpi è stato accompagnato in gran fretta a Tripoli con un volo di Stato? Perché non è stato mantenuto a disposizione in Italia per esempio sotto libertà vigilata? Piantedosi in Parlamento ha risposto così: “In seguito della mancata convalida da parte della Corte d’appello il cittadino libico era a piede libero, presentava un profilo di pericolosità sociale come emerge dal mandato d’arresto della Corte penale internazionale quindi io ho adottato un provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza dello Stato ai sensi dell’art 13 comma 1 del testo unico immigrazione”. Quell’articolo è quello che si usa per allontanare dal territorio nazionale soggetti considerati pericolosi (ma non inseguiti da mandati d’arresto). E’ stata una mossa astuta, ragionando dal punto di vista di fiancheggiatori del criminale libico, tenere l’aereo lì pronto al decollo: perché Almasri appena scarcerato avrebbe potuto essere riarrestato. Farlo sparire al volo nel Falcon per riportarlo in Libia era il modo più sicuro per garantirgli che l’Aja non lo avrebbe processato.

La Corte dell’Aja, chiedendo all’Italia perché ha impedito di portare davanti al Tribunale Almasri, cita il prezioso lavoro del cronista di Radio radicale, Sergio Scandura, che ha sbugiardato il governo Meloni con prove evidenti. Scandura ha documentato che il Falcon è decollato il 21 gennaio da Roma Ciampino per andare a prendere il libico molto prima del provvedimento della Corte e molto prima della nota stampa di Nordio in cui il ministro diceva di “star valutando”. Quindi la decisione è stata presa altrove e il Procuratore e la Corte d’appello hanno eseguito. Nota Scandura: “Alle 16:04 il ministro Nordio consegnava ai cronisti la nota stampa, il Falcon 900 italiano alle 11:14 ha lasciato Roma Ciampino e alle 12:15 stava già a Torino Caselle pronto a imbarcare Almasri per riconsegnarlo in serata a Tripoli”. Nel pomeriggio la nota stampa del ministero annunciava grande lavorio di cervelli sul caso (“considerato il carteggio complesso”),(“Nordio sta valutando”), ma in realtà l’epilogo era già stato deciso molto prima perché l’areo da Ciampino è decollato alle 11:14 del mattino.

Nella memoria integrativa mandata alla Corte penale internazionale, per evitare di vedere l’Italia accusata di aver sottratto un imputato per reati contro l’umanità al processo, il governo fa scrivere che “al momento dell’arresto di Almasri sussistevano rischi concreti di ritorsioni contro cittadini italiani in Libia”, per tentare di evocare uno stato di necessità che vuol dire ammettere d’esser tenuti sotto ricatto da miliziani criminali alleati. E scrive che il Falcon era già in pista prima della decisione dei giudici sulla sorte dell’arrestato per questioni di risparmio: “L’aereo era già in partenza per gli altri libici arrestati con Almasri”. Come dire: abbiamo mandato il Falcon a Torino perché, metti caso fosse stato scarcerato pure Almasri, ce la volevamo cavare con un unico viaggio. Quattro criminali in un volo solo. Un bel risparmio.

l'Unità

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