Caso Raoul Bova: più che la privacy c’entra il codice penale

Stando a quanto riportato dai mezzi di informazione, il “caso Bova” si può riassumere in questi termini: una persona invia ad un’altra persona dei messaggi nell’ambito di un rapporto personale. Questa persona —volontariamente o per colpa— avrebbe reso disponibili questi messaggi a un proprio conoscente e, in un modo o nell’altro, al gestore di un canale Youtube dedicato a “cronaca, spettacolo e attualità”. Prima che l’audio in questione venisse diffuso, Bova avrebbe ricevuto l’offerta di non far circolare i file in cambio di qualche utilità —verosimilmente, denaro. L’offerta non è stata accettata e il file audio è stato diffuso in un video del canale Youtube di cui sopra.
Fin qui i fatti, commentati in termini di “violazione della privacy” anche dal Garante dei dati personali anche se le cose non stanno esattamente così. Vediamo perché.
Divulgare messaggi ricevuti non è automaticamente reatoÈ pacifico che lo scambio di messaggi via Whatsapp sia giuridicamente qualificabile come “corrispondenza” e come tale la sua violazione compiuta da soggetti diversi dal destinatario è punita da diversi articoli del codice penale.
Per esempio, commette il reato di violazione di corrispondenza (punito dall’articolo 616 del Codice) chiunque “prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prender cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta”. Mentre l’articolo 618 sanziona chi rivela il contenuto di una corrispondenza riservata e segreta a lui non diretta. Come è evidente, il tratto comune di questi reati è che chi li commette deve essere un soggetto diverso da mittente e destinatario.
Tuttavia, nel caso dei messaggi inviati da Bova, chi li avrebbe diffusi per prima sarebbe stata la destinataria, quindi il soggetto a cui erano indirizzati e di conseguenza non potrebbe avere commesso una violazione di corrispondenza (perlomeno, nei termini dell’articolo 616 del Codice penale).
Cosa rischia chi diffonde messaggi non a lui destinati?Diverso è il caso di chi ha avuto accesso ai messaggi in questione.
Costui —o costoro— hanno potuto acquisirli solo in due modi: o li hanno ricevuti dalla destinataria, oppure se ne sono impadroniti a sua insaputa. Nel primo caso avrebbero dovuto conservare il segreto sui messaggi e dunque, se ne hanno rivelato il contenuto, hanno commesso reato. Nel secondo avrebbero anche commesso un ulteriore illecito penale, quello di accesso abusivo a un sistema informatico o telematico, visto che lo smartphone è pacificamente qualificabile come tale.
Inoltre, se fosse dimostrata la circostanza della richiesta di somme o di altra utilità per non diffondere i messaggi, allora entrerebbe in gioco il reato di (tentata) estorsione punito con la reclusione da cinque a dieci anni.
Infine, se il destinatario iniziale dei messaggi fosse parte dell’estorsione, allora potrebbe essere accusata di concorso nel reato o addirittura di associazione a delinquere finalizzata all’estorsione, cioè di reati ancora più gravi, che non possono essere gestiti con un normale “patteggiamento” —accettazione della condanna in cambio di una pena ridotta, rimanendo a piede libero.
Il ruolo del giudice civileA completamento dello scudo difensivo di chi si trova nelle condizioni di Raoul Bova, nel caso in cui la diffusione di corrispondenza privata non fosse —almeno in prima battuta— qualificabile come reato, sarebbe sempre possibile rivolgersi al giudice civile per ottenere il risarcimento del danno da illecito extracontrattuale.
Il tribunale, infatti, ha il potere di emettere “provvedimenti cautelari” che possono arrivare anche al sequestro dei file, al divieto del loro utilizzo, alla loro rimozione e all’inibizione dell’accesso alla piattaforma di pubblicazione oltre a imporre una penale per ogni giorno di permanenza del contenuto illecito. Ed è appena il caso di ricordare che l’inosservanza dell’ordine del giudice è punita dall’articolo 650 del Codice penale, quindi conviene evitare di fare finta di niente di fronte a un provvedimento di questo genere “perché tanto non si va in galera”.
I limiti della (autorità per la) protezione dei dati personaliPer quanto ritenuto obsoleto, il nostro sistema giudiziario offre un’ampia tutela a chi subisce violazioni dei propri diritti anche “per via telematica”. Si tratta di una tutela che non è limitata soltanto all’ambito della riservatezza ma punisce comportamenti illeciti che fanno della violazione della riservatezza il presupposto per la commissione di reati ben più gravi.
Dunque, le vittime di fatti come quelli di cui racconta la vicenda di Bova troveranno maggiore tutela nel rivolgersi alla magistratura invece che alle autorità indipendenti, i cui poteri sono, per legge, molto limitati. L’autorità garante può infatti occuparsi soltanto del mancato rispetto del regolamento europeo a prescindere dal fatto che chi reclama abbia subito o meno un danno. Questo ultimo aspetto, infatti, è una competenza della magistratura.
Quale futuro per la tutela online delle parti deboli?il "caso Bova" illustra in modo lampante come la facilità di accesso e la diffusione capillare di strumenti di comunicazione e condivisione di contenuto possono facilitare la commissione di illeciti a danno dei diritti fondamentali anche senza un ruolo attivo delle piattaforme.
Questo rende ancora più importante comprendere che, in un ecosistema tecnologico, la vera linea di difesa non risiede solo nella pur importante "privacy", nella protezione dei dati personali e nelle autorità indipendenti, ma soprattutto nelle consolidate norme del Codice Penale e della funzione esercitata dalle corti. È lì che si trovano le tutele più robuste e gli strumenti più efficaci per sanzionare comportamenti che, sfruttando la velocità delle tecnologie dell’informazione, possono trasformarsi rapidamente in reati come l'estorsione o l'accesso abusivo a sistemi informatici, che sono più gravi del mal-trattamento dei dati personali.
La Repubblica