In Ucraina con Lev Shestov
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Lev Shestov (foto Getty)
Filosofia della responsabilità
Il filosofo era nato nel 1866 nella Kyiv zarista, in una famiglia ebrea. Era un ebreo russo o un ebreo ucraino? Oggi la questione assume importanza: voglio che Shestov appartenga all’Ucraina
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Alba a Podil, il quartiere ebraico di Kyiv di un tempo. 21 marzo 2024, alba e missili sul fiume Dnipro – anche se era impossibile vedere l’alba dall’interno del rifugio antiaereo.
In una cornice sulla mia scrivania c’è un pezzo di carta che Václav Havel una volta lasciò su un palco a Bratislava. Pravda a láska, scrisse. Verità e amore, con alcuni ghirigori disegnati attorno alle lettere. Era il novembre 2009, il ventesimo anniversario della Rivoluzione di velluto, e il Central european forum aveva organizzato una serie di conversazioni al Teatro Hviezdoslav nella capitale slovacca. Havel probabilmente non disse nulla di nuovo quel giorno: aveva a lungo insistito sul fatto che la verità e l’amore avrebbero prevalso sulle bugie e sull’odio. E ci sono momenti in cui è stato così e momenti in cui lo è ancora. I regimi malvagi vengono a volte sconfitti. Nel novembre 1989, in Piazza San Venceslao a Praga, la folla faceva tintinnare le proprie chiavi e gridava: “Per chi suona la campana?”.
All’epoca la campana suonava per il regime comunista. I confini furono aperti, la censura fu revocata, gli archivi furono resi accessibili. Ciò che era stato tenuto nell’oscurità fu riportato alla luce. Ero incantata da questa apertura, da tutti i riferimenti letterari e dai dissidenti un tempo riuniti attorno allo straordinario filosofo ceco Jan Patocčka, che parlava di responsabilità, coscienza e verità. Ma più di tutto ero affascinata dall’idea che la verità fosse una realtà ontologica indubbia quanto il tintinnio delle chiavi che risuonano in un coro su un verso di John Donne. Nel tentativo di capire da dove provenisse questa verità vissuta, iniziai a leggere a ritroso, seguendo i riferimenti: da Havel a Patocka, da Patocka a Martin Heidegger e infine a Edmund Husserl, il fondatore di una tradizione filosofica chiamata fenomenologia. Nell’Europa orientale comunista, i dissidenti avevano attinto a questa tradizione per opporsi al marxismo-hegelismo e le sue “ferree leggi della storia”. Nei decenni successivi alla morte di Stalin, la fenomenologia, e ancor più l’esistenzialismo heideggeriano che ne derivò, divennero un antidoto al “morso hegeliano”.
Patocka è stato l’ultimo grande allievo di Husserl. Il filosofo polacco Krzysztof Michalski è stato a sua volta allievo di Patocka. E Krzysztof leggeva Husserl con me. Senza di lui non avrei avuto alcuna possibilità. Mi aspettavo che fosse Heidegger a risultare impenetrabile, ma in realtà è stato con Husserl cheincontrai un muro. La sua scrittura era molto più asciutta e tecnica. Ossessionato dalla “chiarezza e distinzione” cartesiana, Husserl sembrava incapace, ai miei occhi, di scrivere una frase chiara. Faticavo a entrare in sintonia con lui. Che tipo di persona era? Chiesi a Krzysztof. “Non era come te”, mi rispose. “Non aveva vita emotiva”. Krzysztof insisteva sul fatto che Husserl vivesse puramente per la filosofia. Forse è per questo che, mentre la letteratura filosofica sul fondatore della fenomenologia è vastissima, quella biografica è quasi inesistente.
Fu così che arrivai al filosofo Lev Shestov. Esiste un unico grande scritto su Husserl, ed è un testo in russo di Lev Shestov – il suo critico più appassionato e il suo ammiratore più sincero, nonché, alla fine della sua vita, uno dei suoi amici più intimi. Contro il profondo impegno di Husserl per la ragione, Shestov insisteva sui limiti della ragione e sull’impossibilità di una certezza epistemologica, sulla necessità di cercare la verità non nella luce ma nell’oscurità. Sono arrivata a Shestov tramite Husserl – il che significa, né tramite l’Ucraina, né tramite la Russia, entrambe al centro del mio lavoro, ma piuttosto, se proprio si vuole ridurre la questione a categorie nazionali, tramite la filosofia ceco-tedesca.
Sono arrivata a lui in modo indiretto, leggendo Shestov come un interprete di un pensatore sfuggente le cui idee, apparentemente inaccessibili, erano tuttavia fondamentali per una filosofia della responsabilità che oggi sembra più necessaria che mai.
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Verehrter Freund und Antipode!, Husserl si rivolgeva a Shestov affettuosamente, e con un senso dell’umorismo altrimenti raro nei suoi scritti. Ma chi era questo “stimato amico e antipode”? Era nato nel 1866 nella Kyiv zarista, in una famiglia ebrea con un padre autoritario, e gli era stato dato il nome di Yehuda Leib Shvartsman. Shestov era un ebreo russo o un ebreo ucraino? Oggi la questione improvvisamente assume importanza. “Ebreo ucraino” suona come un neologismo, un’identità consapevole di sé che ha fatto il suo ingresso sulla scena durante la Rivoluzione della dignità sul Maidan nel 2013-2014. E proprio ora, nel mezzo di questa orribile guerra, mentre i russi massacrano gli ucraini senza alcun motivo in una frenesia nichilista, e Kyiv mi appare come la capitale del mondo libero, voglio che Shestov appartenga all’Ucraina. Eppure abbracciare un anacronismo mi sembra ipocrita; significherebbe proiettare nel passato categorie che all’epoca non esistevano. Né Shestov era un ebreo sovietico: fu plasmato dall’impero zarista, studiò a Kyiv, Mosca e Berlino; in seguito ha vissuto a Coppet, Ginevra e Parigi. Non era né un monarchico né un bolscevico, né un nazionalista russo né un nazionalista ebreo. Era un cosmopolita che si ribellò al padre ebreo osservante, che da giovane scrittore adottò uno pseudonimo russo, ma che non rinnegò mai in alcun modo le sue origini.
Shestov parlava francese e tedesco e leggeva Nietzsche con la stessa intensità con cui leggeva Dostoevskij. Autoriflessivo in modo ironico, amava ripetere il detto russo secondo cui “ciò che è salutare per i tedeschi è fatale per i russi”. Una volta, in tarda età, quando i due filosofi-antipodi erano insieme, Shestov giocò con quell’espressione. “Ciò che è salutare per un ebreo è fatale per un tedesco”, disse a Husserl. Ma Husserl non capì cosa c’entrassero gli ebrei con la loro conversazione: da giovane si era convertito al protestantesimo e nella sua mente non era un ebreo, ma un tedesco. E Shestov, per Husserl, non era un ebreo, ma un russo. Dopotutto, Shestov non seguiva le regole alimentari kosher né frequentava la sinagoga. Ma Shestov non accettava questa interpretazione. Per lui, una volta ebreo, si è ebreo per sempre.
Nel febbraio 2024, quasi un secolo dopo quello scambio fra Shestov e Husserl e due anni dopo l’inizio della più grande guerra d’invasione in Europa dalla Seconda guerra mondiale, sono stata invitata a parlare alla Kyiv School of Economics insieme al filosofo ucraino Volodymyr Yermolenko. “Di cosa dovrebbe trattare il nostro intervento?”, mi chiese Volodymyr. “Voglio parlare di Shestov”.
“E’ troppo russo”, mi rispose Volodymyr.
Non ero d’accordo, anche se non protestai. Avevo capito – per quanto un estraneo possa capire – il desiderio, persino la necessità, in quel momento in cui l’esercito russo seppelliva bambini ucraini sotto le macerie, di tracciare una distinzione assoluta tra ciò che fosse ucraino e ciò che fosse russo, un confine netto e parallelo a una distinzione ontologica tra bene e male. Così Volodymyr e io scegliemmo un argomento più ampio, comprensivo di Shestov così come di altri pensatori, ispirandoci al concetto del filosofo tedesco Karl Jaspers di Grenzsituationen, una “situazione limite”, in cui si viene scossi dalla quotidianità e spinti fino ai confini dell’esistenza umana.
A Kyiv, quando iniziò la nostra conversazione – tra Volodymyr, sua moglie Tetyana Ogarkova, brillante studiosa di letteratura, e me – mi resi conto di aver frainteso cosa intendesse Volodymyr con “troppo russo”. Non intendeva questo né in senso politico, etnico o linguistico. Con “troppo russo” si riferiva all’appartenenza di Shestov alla tradizione irrazionalista russa anti cartesiana, in un momento in cui ciò di cui si aveva bisogno era il fondamento equilibrato del razionalismo francese. In fin dei conti, non era forse stato proprio quell’irrazionalismo russo a portare all’assoluzione della follia?
La classica sintesi dell’anti razionalismo russo è stata articolata dal poeta russo dell’Ottocento Fyodor Ivanovich Tyutchev, in una strofa tradotta dallo studioso contemporaneo di Tyutchev, John Dewey:
Chi mai potrebbe comprendere la Russia con la mente? Per lei nessun metro di paragone è stato creato: Ha un’anima di un genere speciale,
Percepibile solo con la fede.
La versione di Dewey è piuttosto lirica. Una traduzione letterale dei versi più famosi di Tyutchev sarebbe: “La Russia non può essere capita con la mente/ In Russia è possibile solo credere”. Volodymyr Rafeyenko, il romanziere ucraino originario di Donetsk, nella regione mineraria orientale del Donbas, una volta mi disse che quella poesia “è diventata la formulazione universale dell’autocoscienza russa. I russi credono di non poter e non dover essere giudicati secondo leggi e standard comuni a tutti gli uomini. E in questo senso, tutto è permesso”.
Nel dicembre 2019, Stanislav fu liberato in uno scambio di prigionieri. Nel 2023, si arruolò volontario per servire nell’esercito ucraino e partì per il fronte. A volte gli mandavo messaggi su Shestov – mi sembrava che le loro sensibilità fossero molto simili. Stanislav rispose a uno dei miei messaggi facendo riferimento a uno dei protagonisti di Solzhenitsyn, un ingegnere nel gulag, che dice a un agente della ČCeka: “Tu hai potere su un uomo solo fino a quando ha qualcosa da perdere. Ma quando gli è stato tolto tutto, non hai più alcun potere su di lui. E’ di nuovo libero”.
“In Russia”, mi disse Stanislav, “hanno trasformato questa massima in un tesoro nazionale: il popolo non ha nulla, e in questo vede la sua forza e la sua ‘particolarità’ rispetto all’occidente”. Mi inviò questa riflessione sull’“ontologia della Russia” mentre sparava una raffica di colpi da una mitragliatrice in trincea.
Mi trovavo in Polonia il 24 giugno 2024, quando ricevetti da Stanislav quel messaggio su Signal alle 13:05, ora dell’Europa centrale. Trentacinque minuti dopo, arrivò il suo messaggio successivo: “Ci hanno appena circondati.”
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Un altro scrittore ucraino più giovane, anche lui del Donbas, Stanislav Aseyev, ha studiato filosofia a Donetsk. Quando arrivò all’università, il suo professore disse agli studenti: “L’arte del pensare, questo è ciò che intendiamo insegnarvi. E ogni volta che vi chiederete: ‘A cosa mi serve tutto questo?’, ricordate che la filosofia è tutto, e tutto il resto è compromesso”. Ben presto l’adolescente Stanislav si trovò di fronte alla questione centrale della filosofia moderna: in assenza di una divinità che garantisca la corrispondenza tra percezione ed essere, come possiamo sapere che il mondo esiste veramente e non è solo una proiezione della nostra coscienza? Come possiamo mai uscire dalle nostre menti per verificare la realtà indipendente dalle nostre percezioni? Il compromesso di Kant ci ha assicurato che sebbene il mondo fosse reale, non avevamo accesso diretto alle cose in sé. L’idealismo kantiano giunse a Stanislav come una rivelazione apocalittica: “Il tavolo, le pareti, i fiori, il vaso, persino io stesso – tutto questo è semplicemente un’immagine della mia coscienza”.
E tutti gli altri? Tutte quelle persone? Dopotutto, la maggior parte di loro non ha idea di questo! Continuano tranquillamente a prendere il tram, pagano il biglietto, fanno la spesa, comprano la cena – e non sospettano nemmeno che tutto ciò non sia altro che un grandioso insieme di sensazioni, che non si estende nemmeno di un millimetro oltre i confini della loro mente!
Nel 2017 Aseyev, allora ventisettenne, fu catturato dai separatisti filorussi; fu tenuto prigioniero per novecentosessantadue giorni, la maggior parte dei quali nelle prigioni di Izolatsiia, il più famigerato campo di prigionia russo nell’Ucraina occupata. Durante questo periodo fu costantemente legato a un tavolo con del nastro adesivo e sottoposto a torture con scariche elettriche. In un saggio che scrisse lì, pubblicato nelle sue memorie, The Torture Camp on Paradise Street, si è ribellato all’ottimismo epistemologico: “Nessuna scienza in tutta la sua storia può vantare un fallimento tanto profondo quanto quello che alla fine ha travolto la filosofia: due millenni e mezzo di pensiero occidentale non hanno ancora risolto nessuno dei problemi che la filosofia si era prefissata di affrontare”.
Era – è – Shestov troppo russo?
Shestov si era posizionato, più notoriamente, contro Husserl, che non era un filosofo francese, ma apparteneva alla tradizione razionalista. Husserl si considerava molto consapevolmente il continuatore del progetto cartesiano di raggiungere una conoscenza certa. Era determinato, come lo era stato Cartesio, a ottenere “chiarezza e distinzione”. Questa frase – Klarheit und Deutlichkeit – Husserl la ripeteva più e più volte. Se Cartesio, Kant e altri avevano fallito prima di lui, Husserl credeva che ciò significasse che fosse necessario un approfondimento della ragione, non un allontanamento da essa.
L’accostamento inevitabile qui è con Freud, che condivideva con Husserl una biografia sorprendentemente simile: entrambi erano ebrei asburgici assimilati, originari della Moravia, nati negli anni cinquanta dell’Ottocento; entrambi giunsero a Vienna e studiarono con il filosofo della psicologia Franz Brentano.
Furono due dei più grandi ribelli contro le inclinazioni materialiste e oggettiviste dominanti nel Diciannovesimo secolo. Ed entrambi elaborarono filosofie che ricostruivano il mondo sulla base di una soggettività radicale, incentrata sull’“io”. Tuttavia, queste filosofie erano anche antitetiche: una, quella di Husserl, vedeva la soggettività più essenziale come trasparenza radicale; l’altra, quella di Freud, come occultamento radicale . Shestov condivideva con Freud un amore per Shakespeare. Nel dicembre 1896, l’allora trentenne Shestov scrisse da Berlino alla sua amica Varvara Malafeeva Malakhievaia-Mirovich a Kyiv, dicendole che non doveva essere così insicura riguardo alla sua conoscenza di Kant, perché avrebbe trovato qualcosa di molto più essenziale nel drammaturgo inglese della prima età moderna. “Tutta la conoscenza, tutta la letteratura è in Shakespeare”, le scrisse Shestov, “tutta la vita è in lui”. All’epoca Shestov era immerso in un’intensa lettura di Nietzsche – il pensatore che, secondo Freud, “aveva una conoscenza di sé più penetrante di qualsiasi altro uomo che sia mai vissuto o che potrà mai vivere”. La sorella di Shestov, Fania Lovtskaia, era una freudiana, divenne una psicoanalista di spicco in Palestina, poi in Israele e successivamente in Svizzera. Per lei era ovvio che l’ossessione di suo fratello maggiore per Nietzsche fosse un sintomo di egocentrismo. Suo fratello scriveva solo di nevrotici, fece notare a un’amica – Nietzsche, Dostoevskij, Kierkegaard. Era tutta un’autoanalisi mascherata.
Sul palco con Tetyana e Volodymyr a Kyiv, difesi Shestov contro il disappunto che sua sorella aveva espresso un secolo prima. Sto scrivendo un libro sulla fenomenologia e, tra le molteplici generazioni di personaggi in questo libro che vanno da Husserl fino a Havel, Shestov è il più generoso, il più menschlich, umano. Ho letto le sue corrispondenze con Husserl, con Varvara Malafeeva, con Martin Buber e con il collega filosofo di Kyiv, Gustav Shpet. Le sue lettere erano sempre modeste e calorose, sempre preoccupate per i suoi amici, sempre riconoscenti degli altri pensatori per aver stimolato le sue idee. Era, fra tutti, il più sensibile ai sentimenti degli altri.Quando Fania Lovtskaia parlò del narcisismo di suo fratello alla loro zia, quest’ultima le rispose che il problema principale di Lev era il suo rifiuto di Kant. Per Fania questo era assurdo: “Se una persona mostra narcisismo ed egocentrismo sconfinati e allo stesso tempo è estremamente insicura e si sente circondata da nemici, allora nessun Kant potrà aiutarla”.
Rimane una domanda non banale: il rifiuto di Shestov della ragione kantiana era un’esaltazione dell’irrazionalismo nello spirito archetipicamente russo di Tyutchev? O era piuttosto un’espressione di modestia epistemologica, di un tipo molto diverso da quello di Kant? “Nelle nostre menti e nella nostra esperienza non troviamo nulla che possa darci una base per limitare in qualche modo il proizvol della natura”, scrisse Shestov nel 1905 in L’apoteosi della precarietà, usando un termine russo che indica arbitrarietà con sfumature di tirannia, caparbietà, capriccio.
Se la realtà fosse diversa da com’è ora, non ci sembrerebbe meno naturale. In altre parole: può darsi che nei giudizi umani sui fenomeni ci siano elementi sia necessari che accidentali, eppure nonostante tutti gli sforzi, finora non abbiamo trovato ed evidentemente non troveremo mai un modo per separare l’uno dall’altro. Inoltre, non sappiamo quali di questi elementi siamo più essenziali e più importanti. Da qui la conclusione: la filosofia dovrebbe abbandonare i tentativi di scoprire veritates aeternae. Il suo compito è insegnare all’uomo a vivere nell’incertezza – l’uomo che più di ogni altra cosa teme l’incertezza e si nasconde da essa dietro vari dogmi.
L’opposizione di Shestov era fra certezza e incertezza, fra regole che vincolano e contingenza capricciosa. (L’apoteosi della precarietà fu tradotto nel 1929 in inglese come All things are possible, con una prefazione di D. H. Lawrence). Ma il fatto che Shestov credesse che tutto fosse possibile non significava che credesse che tutto fosse permesso.
Dopo il 24 febbraio 2022Dopo il 24 febbraio 2022, quando la Russia lanciò l’invasione su larga scala dell’Ucraina e lui e sua moglie finirono sotto occupazione russa, Volodymyr Rafeyenko decise che non avrebbe mai più scritto in russo. Per uno scrittore, rinunciare alla propria lingua madre è come amputarsi un braccio. E non era il solo a impegnarsi in questa auto-amputazione. Altri tra i migliori scrittori ucraini russofoni – tra cui Stanislav Aseyev – rinunciarono al russo a favore dell’ucraino. E’ un’amputazione linguistica implicitamente in solidarietà con le amputazioni corporee a cui tanti ucraini sono stati sottoposti.
A perseguitare questa conversazione dall’oltretomba, o dalle profondità della Senna dove si suicidò nel 1970, c’è Paul Celan, la cui nativa Czernowitz è oggi la città ucraina di Chernivtsi. E’ impossibile non pensare a Celan e cercare di comprendere nuovamente la devastante intimità di Muttersprache/Mördersprache. Cosa significa scrivere poesie nella lingua dell’assassino di tua madre? La lingua può mai trascendere l’atrocità? Può mai essere purificata, concepita di nuovo? Celan fu tra i lettori di Shestov, anche se non so in quale lingua Celan lo leggesse: il russo? tedesco? francese? Come Shestov, Celan conosceva tutte queste lingue. In un discorso del 1960 noto come Il Meridiano, che pronunciò dopo aver ricevuto il Premio Buchner, Celan si rivolse a Shestov parlando di oscurità. Il discorso divenne una delle dichiarazioni più celebri sulla natura della poesia del suo tempo. “Signore e signori, oggi è comune rimproverare alla poesia la sua ‘oscurità’”, disse.
A questo punto permettetemi di citare – forse bruscamente, ma non si è aperto qui qualcosa, improvvisamente? – permettetemi di citare una frase di Pascal, una frase che ho letto tempo fa in Lev Shestov: Ne nous reprochez pas le manque de clarté puisque nous en faisons profession!, Non rimproverateci la mancanza di chiarezza, poiché ne facciamo una professione!
Il sentimento di Pascal rifletteva molto da vicino la sensibilità di Shestov. Era l’antitesi di quella di Husserl, che una volta scrisse nel suo diario che non poteva sopportare di vivere senza certezza. Per Husserl, la verità era legata a Klarheit e Sicherheit, chiarezza e certezza. Per Shestov, invece, verità, chiarezza e certezza non formavano affatto un insieme armonico.
Circa mezzo secolo prima del discorso di Celan, Shestov, non avendo mai incontrato in persona Husserl, rimase affascinato dalla determinazione del filosofo tedesco nel raggiungere la Sicherheit, la sicurezza. Quando nel 1912 l’amico più giovane di Shestov, Gustav Shpet, si recò a Göttingen per studiare con Husserl, Shestov fu felicissimo per lui. All’epoca, Shestov viveva in Svizzera con sua moglie, la dottoressa Anna Eleazarovna Berezovskaia e le loro due figlie adolescenti, Tatiana e Nataliia, la cui esistenza aveva a lungo tenuto segreta ai suoi genitori, credendo che suo padre non avrebbe mai accettato una nuora non ebrea. Era impaziente di ascoltare le impressioni di Shpet. Cosa pensava Husserl, chiese Shestov a Shpet nel luglio 1914, delle angosce espresse da Dostoevskij? Molti interpretavano la filosofia di Shestov come scetticismo e pessimismo – scrisse Shpet alla sua nuova moglie, Nataliia Guchkova, in una lettera – “E nel frattempo non conosco nessuno che cerchi la verità con più ardore, o che desideri trovarla più di lui”.
Nell’agosto del 1914, l’Europa che Husserl, Shestov e Shpet avevano conosciuto giunse alla fine. Shestov tornò a Kyiv, poi a settembre si recò a Mosca, dove lo raggiunsero sua moglie e le sue figlie e dove si unirono a Shpet e Nataliia Guchkova, che era in attesa di un bambino. Sergei Listopadov, il figlio ventiduenne di Shestov nato fuori dal matrimonio, stava già prestando servizio nell’esercito zarista. All’inizio di quell’autunno, Sergei fu ferito in battaglia e Shestov si recò a Kyiv per vederlo. Shestov voleva che suo figlio si prendesse più tempo per riprendersi dalle sue commozioni cerebrali, ma Sergei tornò presto al fronte. Le settimane estive successive passarono senza notizie, e Shestov temeva che suo figlio fosse stato fatto prigioniero. L’ultima lettera di Sergei trasmetteva inquietudine: i combattimenti erano feroci; il suo comandante era stato ferito; ora era l’unico ufficiale della sua compagnia. Shestov scrisse a sua sorella Fania e a suo marito Hermann Lowitzky in Svizzera: Sergei, disse loro, aveva il loro indirizzo; se li avesse contattati, avrebbero potuto inviargli un telegramma a Mosca? Sarebbe bastata una sola parola per dire che avevano avuto sue notizie, e magari una seconda per dire se – se – stesse bene...
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Poi Sergei riapparve e prese il suo congedo dal fronte durante l’inverno del 1916-1917 a Mosca, dove Shestov e Shpet si riunivano per lunghe serate di discussioni con i loro amici. Shestov amava questi dibattiti; più dogmatico era il suo interlocutore, più Shestov si mostrava gentile con lui, prendendosi il suo tempo per rispondere. Varvara Malafeeva credeva che Shestov fosse finalmente quasi felice, circondato da amici e conversazioni. Sergei non era cresciuto con suo padre, ma ora Shestov lo accoglieva nella sua famiglia e lo presentava alle sue sorellastre più giovani. Shestov lo includeva nei dibattiti, e, di tanto in tanto, un amico notò che lo guardava con adorazione.
A Mosca, Shestov perse persino il suo legame personale, seppur indiretto, con il fondatore della fenomenologia. Le condizioni politiche rendevano impossibile qualsiasi corrispondenza tra Shpet e Husserl: appartenevano a imperi in guerra tra loro. Eppure, Shestov continuava a essere assorbito da Husserl a distanza. Il metodo fenomenologico di Husserl, destinato a raggiungere “visione pura”, si basava su un concetto che Husserl chiamava Evidenz. Letteralmente “evidenza”, Evidenz per Husserl indicava la qualità della “adeguata auto-donazione”, una chiara visione mentale di qualcosa che esisteva effettivamente come ciò che veniva visto. Era il mezzo con cui Husserl perseguiva un orizzonte di verità assoluta, che – sorprendentemente per Shestov – era stata per l’umanità sin dall’inizio dei tempi ciò che la Terra Promessa era per gli ebrei. “Husserl non desidera compromessi,” scrisse Shestov nella Mosca in tempo di guerra, “o tutto o niente. O Evidenz è la destinazione finale a cui lo spirito umano aspira nella ricerca della verità, ed è raggiungibile con mezzi umani, oppure deve regnare un regno di caos e follia sulla terra”. Shestov elogiava la consapevolezza di Husserl sulla gravità della questione. Era “finalmente giunto il momento”, concordava, “di mettere tutte le carte in tavola e di sollevare le domande in modo radicale come fece Husserl”.
Ma la Terra Promessa che Husserl vedeva all’orizzonte sembrava a Shestov un miraggio. La sua esistenza dipendeva dall’“autocrazia della ragione”, dalla quale la storia doveva necessariamente essere esclusa. Per Husserl, lo storicismo era scetticismo. La verità doveva essere assoluta, valida sempre e ovunque; ciò che era vero doveva essere vero an sich, in sé, non storicamente contingente. Shestov tradusse l’Evidenz di Husserl in ochevidnost’, una parola russa che significa letteralmente “visibile agli occhi”. Era una traduzione molto migliore dell’originale: questa parola, assente in tedesco, era esattamente ciò che Husserl voleva esprimere. Ma non esistevano forse momenti, si chiedeva Shestov, in cui il “visibile agli occhi” raggiungeva il limite delle sue possibilità? La ragione poteva estendersi solo fino a un certo punto; e Shestov sospettava che la verità fosse qualcosa che si trovava al di là dei limiti della ragione.
Husserl, secondo Shestov, non affrontò lo spazio al di là di questi limiti; rimase nelle zone intermedie della vita, quelle che la ragione poteva raggiungere, ed erroneamente estrapolò che questa raggiungibilità si applicasse anche alle zone di confine. Ma non era così.
Dobbiamo avere il coraggio di dirci con fermezza: le zone intermedie della vita umana e universale non assomigliano né all’equatore né ai poli. L’errore costante del razionalismo è la sua certezza nel potere illimitato della ragione. La ragione ha fatto tanto, quindi la ragione può fare tutto. Ma “tanto” non significa “tutto”; “tanto” è separato da “tutto” toto coelo; “tanto” e “tutto” sono assolutamente incommensurabili. Appartengono a due categorie distinte e irriducibili.
Nell’ottobre 2023, Stanislav Aseyev, mentre prestava servizio nell’esercito, descrisse il contrasto fra le zone intermedie e i poli, regni tra i quali vi era contiguità senza commensurabilità. “Un tram che corre rumorosamente sui binari trasportando una dozzina di persone impegnate nelle commissioni del mattino”, scrisse, mentre, nello stesso momento, la testa di qualcuno viene schiacciata fra un muro e un martello. Cosa stavamo facendo quando questo accadeva? Forse stavamo facendo la spesa, mettendo uova e ketchup nei carrelli, proprio nel momento in cui, in un tratto di foresta del Donbas, la testa di un soldato ucraino veniva segata viva, il video “trapelato” su Telegram insieme alle urla.
Shestov intitolò la sua polemica con Husserl Memento Mori. La pubblicò in russo nel 1917, un decennio prima che Heidegger scrivesse Essere e tempo e prima che il suo concetto centrale di Sein-zum-Tode – “essere-per-la-morte” – divenisse un motivo filosofico predominante. Molte altre cose accaddero in quell’anno. Shestov si trovava a Mosca durante la Rivoluzione di febbraio; il mese successivo si recò a Kyiv. “Forse, se Dio vuole”, scrisse da Kyiv a sua madre, “la Russia sarà più sensata di altri paesi e passerà a un nuovo sistema senza troppi sconvolgimenti”.
Arrivarono notizie della morte del figlio di Shestov al fronte; e a Varvara Malafeeva sembrò che, da quel momento, Shestov non fosse mai più apparso felice. Nell’aprile 1917 Lenin arrivò a Pietrogrado, dove “trovò il potere per strada e lo raccolse”. Vivere a Mosca diventava sempre più difficile. Nel febbraio 1918 l’Armata Rossa prese Kyiv. Il mese successivo i tedeschi cacciarono i bolscevichi dalla città natale di Shestov; in aprile insediarono Pavlo Skoropadskyj come etmano di uno stato ucraino sotto controllo tedesco. Nel luglio 1918 Shestov e la sua famiglia lasciarono Mosca per Kyiv, dove furono accolti da sua sorella e dal marito, la famiglia Balachovskij, che viveva vicino alla Chiesa di Sant’Andrea. La casa non era lontana dalla riva del fiume Dnipro; dalla finestra si godeva una vista meravigliosa. Quando la famiglia Balachovskij fuggì a Parigi, altri amici e rifugiati si trasferirono nella casa insieme agli Shestov, tra cui Varvara Malafeeva. La figlia maggiore di Shestov, Tatiana, iniziò a frequentare l’università; era attratta da Platone.
Nel novembre 1918 cadde l’Etmanato e i tedeschi iniziarono ad abbandonare la città. Questa è la storia che Michail Bulgakov racconta in La guardia bianca, un romanzo epico pubblicato nel 1925 e ambientato a Kyiv durante un solo giorno del dicembre 1918. Oggi, in Ucraina, Bulgakov è oggetto di risentimento: un collaboratore di una letteratura imperialista russa che si sta ripetendo nelle segrete di Buchča, Kherson e Donetsk, sui corpi torturati di ucraini come Stanislav Aseyev. Il giudizio non è privo di fondamento. Eppure, non leggiamo la letteratura perché è innocente. Nella storia non esiste la cancellazione: la storia non è solo la storia dei buoni. Il metodo fenomenologico di Husserl prevedeva l’Einklammern, il mettere “tra parentesi” tutto ciò che era empirico e le domande sulla sua esistenza indipendente dalla coscienza, accantonandole. Nella storia, tuttavia, non si può “mettere tra parentesi”, non si può presupporre che la vita di uno scrittore possa essere accantonata come un “errore genealogico” irrilevante rispetto alla sua opera.
In ogni caso, La guardia bianca rimane nella mia mente per ragioni completamente diverse: è un romanzo che illumina come la temporalità stessa si dilati ai poli. Vasilia, l’amministratore dell’edificio che fa una breve apparizione, dice: “Quando penso a tutte queste cose che stanno succedendo, non posso fare a meno di arrivare alla conclusione che le nostre vite sono estremamente insicure.” Questo eufemismo è molto nello spirito di Shestov. Nel romanzo di Bulgakov, l’insicurezza è totale non solo a causa della violenza fisica, ma anche per la violenza esistenziale: la temporalità si rivela dolorosamente incostante. Rallenta quasi fino a fermarsi e accelera come se fosse al di là delle leggi della fisica. Il tempo si lacera nei momenti di estrema tensione. In quel solo giorno a Kyiv il mondo cambia radicalmente, come se fossero passati decenni. Il governo ucraino liberò Stanislav Aseyev dalla prigionia in uno scambio di prigionieri nel 2019, ma per molti mesi continuò ad avere paura. Non erano le camere di tortura a spaventarlo. Nella sua mente tornava alla mattina in cui era stato catturato: si era fatto un bagno, messo il profumo, aveva ascoltato musica, mangiato formaggio fresco con panna acida e uvetta a colazione – “una mattina perfettamente normale di maggio”. Ritornando a quella mattina, non riusciva a trovare “alcun segno di sventura imminente”. Ma stava per sperimentare l’incostanza del tempo: tra il formaggio fresco e le sbarre di ferro passò solo un’ora. “Fu l’assurdità a terrorizzarmi”, scrisse, “il non sapere, l’assenza di un qualsiasi significato che potesse anche solo avvicinarsi a spiegare quell’abisso stretto quanto un’ora. Dalla vasca da bagno bianca con l’acqua calda alle sbarre fredde e ai muri scoloriti, passò solo un’ora”...
Nel dicembre del 1918, le forze del leader nazionalista ucraino Symon Petliura presero Kyiv e istituirono la Repubblica popolare ucraina. La Repubblica fu di breve durata. Nel febbraio del 1919, l’Armata Rossa tornò. I bolscevichi consideravano Shestov un filosofo rivoluzionario e lo trattarono bene, sperando che avrebbe dedicato le sue capacità alla rivoluzione. Gli fu permesso di insegnare all’università; tenne un corso di lezioni sulla filosofia greca e un altro sui problemi fondamentali della filosofia, da Platone a Cartesio. Shestov, però, sapeva che la sua situazione era precaria e per questo sceglieva percorsi indiretti per attraversare la città, aggirandosi per strade secondarie.
Il 14 giugno 1919, Shestov scrisse a sua madre: “Da noi qui tutto è blagopoluhno”. Mi soffermo su questa frase: blagopoluhno è difficile da tradurre. La sua etimologia suggerisce lo stato di aver ricevuto una benedizione e trasmette un senso di bene, sicurezza, prosperità, assenza di problemi. Ma cosa poteva significare blagopoluhno in quel momento? Esisteva qualcosa come il bene, la sicurezza, la prosperità e l’assenza di problemi in quel tempo e in quel luogo? Forse significava solo che, fino a quel momento, la famiglia di Shestov era stata risparmiata dalla brutalità fisica. Il mese successivo, Shestov scrisse a Shpet, a Mosca, con toni più cupi: “Ormai tutti, o quasi tutti, si sono arresi fisicamente e moralmente”.
Mentre agosto finiva e settembre iniziava, l’Armata Bianca antibolscevica prese Kyiv. A metà settembre, i negozi di Kyiv erano vuoti. La famiglia di Shestov aveva pochissimo da mangiare. Tatiana e Nataliia lavoravano per i contadini, che le pagavano in cibo. C’era denaro, ma il denaro non aveva più alcun valore. La città era piena di sangue. E c’erano pogrom. A differenza del loro padre, le figlie di Shestov non avevano un aspetto ebraico evidente; si vestivano come ragazze russe. Un giorno si trovavano in una piccola dacia alla periferia di Kyiv quando apparve un cosacco in cerca di ebrei. Tatiana uscì sulla veranda. “Avete degli jid qui?”, le chiese cortesemente il cosacco. No, rispose Tatiana, non ce n’erano. “Ho chiesto”, le disse, “perché ci è stato ordinato di massacrare tutti gli ebrei”.
Lo disse quasi con un tono di spiegazione, quasi scusandosi. Poi si inchinò, diede un colpo di frusta al cavallo e si allontanò. Poco dopo, nell’autunno del 1919, Shestov e la sua famiglia lasciarono Kyiv, dirigendosi a est con l’intenzione di raggiungere l’ovest. Varvara Malafeeva e alcuni suoi compagni di viaggio si trovavano sullo stesso treno; faceva un freddo estremo. Quando il treno si fermava nelle diverse stazioni, si sentivano urla di “Bastonate gli ebrei! Salvate la Russia!” Poi il treno si fermò a Kharkiv e non sarebbe più ripartito. Shestov e la sua famiglia decisero di rifugiarsi lì; Varvara e uno dei suoi compagni di viaggio avrebbero aspettato il prossimo treno per proseguire verso est. La paura la paralizzò nel momento in cui si rese conto che Shestov le stava dicendo addio. La loro era una vecchia e profonda amicizia; non riusciva a credere che lui la stesse lasciando. Lei proseguì per Mosca, mentre Shestov e la sua famiglia partirono per la Crimea.
Impiegò tre settimane per raggiungere Yalta, un viaggio brutale via terra in vagoni merci ghiacciati fino a Rostov e poi via mare da Rostov a Yalta. A Yalta, il 15 novembre, Shestov scrisse nel suo diario: “E’ impossibile congetturare qualcosa, prevedere qualcosa. E tutto sembra così assurdo, così insensato”.
La famiglia viaggiò da Yalta a Sebastopoli, poi da Sebastopoli a Costantinopoli su un piroscafo francese, quindi da Costantinopoli a Genova su una nave americana. Da lì proseguirono per Parigi e, successivamente, per Ginevra. Ovunque andasse in Europa, chiunque incontrasse gli faceva sempre la stessa domanda: cosa stava realmente accadendo in Russia?
Trascorse gli ultimi mesi di quell’inverno 1919-1920 in Svizzera cercando di spiegare ciò che trovava inspiegabile. “La povera Russia sta marcendo e si sta decomponendo. Tutto ciò che c’è di meglio sta affondando fino sul fondo”, scrisse in un testo datato 5 marzo 1920.
Nessuno capiva. Come avrebbe potuto qualcuno capire? Ciò che stava accadendo, era peggio di una guerra: le persone stavano annientando la propria patria, senza neppure capire loro stesse cosa stessero facendo. Alcuni pensavano di compiere una grande impresa: la salvezza dell’umanità. Altri non pensavano affatto: si limitavano ad adattarsi al momento in cui si trovavano. “Ciò che accadrà domani per loro è irrilevante, non credono nel domani, proprio come non ricordano ciò che è accaduto ieri”, scrisse Shestov.
I russi non avevano mai amato la parola “cittadino”, spiegò. Preferivano pensarsi come oggetti piuttosto che come soggetti. I bolscevichi parlavano di libertà, ma solo fino a quando il potere non era nelle loro mani – poi dichiararono che la libertà era un pregiudizio borghese. Credevano di sapere meglio del popolo cosa fosse necessario per il popolo e che, meno chiedevano alla gente cosa volesse, più felice sarebbe stata. Ma questo non fu l’unico tradimento dei bolscevichi. In realtà, non erano né buoni materialisti né buoni hegeliani; erano idealisti che non credevano né nella conoscenza né nella ragione, ma piuttosto nella “forza fisica bruta”. Erano ideologi – per quanto paradossale potesse sembrare, notava Shestov – della violenza in quanto tale. “In Russia”, scrisse, “i circoli di potere hanno sempre idealizzato proprio la forza fisica”.
Ancora oggi, un secolo dopo, quel momento in cui la Prima guerra mondiale si riversò nella Rivoluzione bolscevica, che a sua volta si trasformò in una serie di guerre civili, è difficile da assimilare per gli storici. La violenza aveva saturato tutto e tutti. Lo stato – qualunque cosa esso fosse in un dato momento – non aveva più il monopolio dell’uso della forza. Fra totalitarismo e anarchia non c’era che un filo sottilissimo.
“Nell’atmosfera di brutalità reciproca e guerra civile, si estinsero le ultime scintille di fede nella possibilità di realizzare, anche solo in forma spettrale, una verità sulla terra”, scrisse Shestov. Come avrebbe potuto qualcuno comprendere ciò che stava accadendo?
Un secolo dopo, Stanislav Aseyev scrisse del suo nativo Donbas nell’anno rivoluzionario 2013-2014. C’era una rivoluzione nella capitale, ma dove viveva Stanislav la maggior parte delle persone reagiva con stanchezza e indifferenza – e con orgoglio per il loro culto del lavoro. Queste persone – descriveva il mondo da cui proveniva – uscivano dalle miniere a fine giornata coperte di polvere e trovavano consolazione solo in un bicchierino di vodka, persone da lungo tempo private di un futuro e abituate a condizioni umilianti. Erano persone come sua madre, che accettava con infinita capacità di sacrificio gli abusi del marito alcolizzato e che, nei rari giorni di riposo dal lavoro, non sapeva cosa fare della propria libertà.
Ora, a dieci anni dall’inizio della guerra nel Donbas e a più di due anni dall’invasione russa su larga scala dell’Ucraina, mi ritrovo a rileggere più e più volte il saggio di Shestov. Questo decennio di violenza selvaggia in Ucraina, iniziato nel 2014, richiama quel decennio di brutalità esattamente un secolo prima. E Shestov suggerisce connessioni che oggi sembrano strazianti e pertinenti: il rapporto tra l’assenza di responsabilità individuale e l’assenza di verità; l’indifferenza verso il tempo come sintomo della rinuncia a una libertà mai posseduta in primo luogo; e, soprattutto, forse, la connessione tra l’assenza di soggettività e una fede nella violenza in quanto tale. La violenza come habitus. Le città stavano morendo, i villaggi stavano morendo – di fame, freddo e carneficina. Shestov, che in Memento Mori aveva insistito sul fatto che la ragione non può andare oltre certi confini, capì che quei confini erano stati ormai superati, e che ciò che stava accadendo nella sua patria era ormai al di là della portata della ragione.
E che dire della verità che si trova oltre i limiti della ragione? Shestov si rivolse a Dostoevskij, contrapponendolo a Kant e implicitamente a Husserl, filosofi che avevano anelato all’eterno, al non contingente, al senza tempo. “In altre parole”, osservava nel 1921, “la conoscenza diventa tale solo nella misura in cui scopriamo in un fatto un principio ‘puro’, quel ‘sempre’ invisibile agli occhi, quel fantasma onnipotente che ha ereditato il potere e i diritti degli dèi e dei demoni scacciati dal mondo”. Per Shestov, tuttavia, come per Dostoevskij, questo “sempre” puro equivaleva alla tirannia. Questo era ciò che il Grande Inquisitore aveva compreso: che le persone temevano la libertà, che desideravano ardentemente un’autorità infallibile davanti alla quale tutti potessero inchinarsi. Dostoevskij si ribellò contro questa autorità comune. Il suo atto di resistenza fu negare la legge, il principio generale che valeva sempre, per comprendere la verità singolare. Poiché la verità era al di sopra delle leggi; queste leggi erano per la verità ciò che le catene e le prigioni erano per Dostoevskij.
Dostoevskij si ribellò all’universale, a ciò che vale per tutti, in favore dell’individuo. Tutte le nozioni di “senso comune” implicavano il generale. L’“uomo razionale” – in russo zdravomysliashchii chelovek, “una persona che pensa in modo sano” – era “l’‘Uomo’ in generale”. Questa “tuttità” – quella che Dostoevskij chiamava vsemstvo – era il grande nemico di Dostoevskij. La filosofia si era sempre sentita in dovere di giustificarsi davanti allo vsemstvo, davanti a ciò che Kant chiamava “coscienza in generale”; desiderava un fondamento immutabile, basi solide. I filosofi, sosteneva Shestov, “temevano la libertà, il capriccio, cioè tutto ciò che nella vita era insolito, speculativo, indeterminato, senza sospettare minimamente che proprio ciò che è insolito, speculativo, indeterminato, che non richiede né garanzie né difesa, fosse il suo unico e vero oggetto di studio”.
Nel 1928, oltre un decennio dopo la pubblicazione originale di Memento Mori, Shestov e Husserl si incontrarono di persona per la prima volta. Discuterono a lungo di Allgemeingültigkeit, il principio di universalità, e legarono immediatamente, instaurando un’amicizia che raramente nasce così tardi nella vita. Quell’autunno, quando Shestov scrisse a Husserl per informarlo che si sarebbe recato a Friburgo per tenere una conferenza su Tolstoj, Husserl ne fu estremamente felice. Lui e sua moglie Malvine invitarono subito Shestov a cena. “Attendo con straordinaria impazienza di accoglierti presto a Friburgo”, gli scrisse Husserl. Il fondatore della fenomenologia assistette alla conferenza di Shestov su Tolstoj. Nella casa di Husserl a Friburgo, i due filosofi passeggiarono e parlarono tutta la notte e fino al giorno successivo. “Sono come due amanti”, disse Malvine, “inseparabili”.
Fu in quella visita a casa degli Husserl che Shestov incontrò Heidegger. Shestov aveva già letto Essere e tempo, pubblicato un anno prima. Ne seguì una lunga discussione filosofica. A Shestov sembrò che Heidegger non fosse una persona facile da conoscere. Dopo la sua partenza, Husserl esortò Shestov a leggere Kierkegaard, spiegandogli che sotto il lavoro di Heidegger si celava il pensiero del filosofo danese del Diciannovesimo secolo.
E così, mentre il terrore stalinista travolgeva il luogo che era stato la sua casa, Shestov studiò l’opera dell’esistenzialista cristiano di Copenaghen. Shestov aveva letto Dostoevskij come antidoto a Kant; Kierkegaard aveva letto il libro biblico di Giobbe come antidoto a Hegel. Per Hegel, il problema che la dialettica doveva risolvere era quello di connettere il singolare e l’universale. La vita etica, ciò che Hegel chiamava Sittlichkeit, rappresentava per lui l’universale, che per Shestov era connesso a una necessità che poteva solo essere oppressiva. Giobbe, invece, compiva ciò che Kierkegaard descrisse diversamente come una “sospensione dell’etico”. Quando Dio, provocato da Satana, mise alla prova la fedeltà di Giobbe sottoponendolo a una sofferenza continua, Giobbe si distaccò dal generale. Durante la sua atroce sofferenza, i tre amici di Giobbe – Elifaz il Temanita, Bildad il Suhita e Zofar il Naamatita – sedettero al suo fianco e insistettero sul fatto che uomini e dèi dovessero accettare il loro destino. Ma a un certo punto Giobbe rifiutò: nessuna forza era abbastanza potente da fargli accettare la giustezza di quel destino. Perché l’etico esigeva l’accettazione della necessità? Il Libro di Giobbe metteva a nudo questa domanda. Là Dio appariva come proizvol, arbitrario e capriccioso. Gli uomini desideravano il generale, il principio, la legge, la garanzia, ma Dio era puro proizvol, al di fuori di ogni regolarità e di ogni garanzia.
Per Kierkegaard – come Shestov comprese leggendo – la grandezza di Giobbe non stava nell’accettare che “il Signore ha dato e il Signore ha tolto”, ma nel disperarsi perché “il suo dolore è più pesante delle sabbie del mare”. “La grandezza di Giobbe” – cita Shestov da Kierkegaard – “è che la sua sofferenza non può essere alleviata né repressa da menzogne e false promesse”. Con le sue parole, Shestov spiegò che “Giobbe restituisce al pianto e alla maledizione, lugere et detestari, respinti dalla filosofia speculativa, il loro diritto primordiale: il diritto di presentarsi come giudici quando si indaga sulla verità e sulla falsità”. Come Dostoevskij, Kierkegaard sosteneva l'individuale contro l'universale. Contro la difesa hegeliana del “patibolo della storia”, Kierkegaard insisteva sul fatto che il singolare e il generale non potevano essere sintetizzati dialetticamente. Ogni singolarità, ogni sofferenza individuale, doveva essere presa per ciò che era. “Lasciare Hegel per Giobbe!”, scrisse Shestov.
Se Hegel avesse potuto ammettere anche solo per un attimo che una cosa del genere fosse possibile; che la verità non era in lui, ma nell’ignorante Giobbe; che il metodo di ricerca della verità non risiedeva nella ricerca dell’“autodinamismo del concetto” (scoperto da Hegel), ma nei lamenti della disperazione, che dal suo punto di vista erano selvaggi e privi di senso, allora avrebbe dovuto confessare che tutta la sua opera e lui stesso non erano nulla.
La domanda di Kierkegaard, come Shestov la riassunse, era questa: “Da che parte sta la verità? Dalla parte di ‘tutti’ e della ‘codardia di tutti’, o dalla parte di coloro che hanno osato guardare la follia e la morte negli occhi?” “Il problema”, scrisse Stanislav Aseyev nei mesi successivi alla sua liberazione dalla prigione di Izolatsiia, “non è che gli esseri umani vivano in un mondo di assurdità e dolore; il problema è che cerchiamo di convincerci del contrario”.
Edmund Husserl morì nell’aprile del 1938, un anno prima di compiere ottant’anni. Lev Shestov, che aveva scritto la critica più fervente alla filosofia di Husserl, ora scriveva l’elogio più toccante. “Com’è possibile”, si domandava, “che un uomo la cui intera vita era stata una celebrazione della ragione mi abbia condotto all’inno di Kierkegaard all’assurdo?”. Eppure, continuava Shestov, c’era “una profonda affinità interiore tra l’insegnamento di Husserl da un lato e quello di Nietzsche e Kierkegaard dall’altro. Assolutizzando la verità, Husserl fu costretto a relativizzare l’essere, o più precisamente, la vita umana”. Shestov comprese che la vita di Husserl era un proprio e vero aut-aut kierkegaardiano: “Ci ha posto di fronte a una scelta con una forza senza precedenti: o siamo tutti folli, o ‘Socrate è stato avvelenato’ è una verità eterna, vincolante per tutti gli esseri coscienti”.
Per Shestov, il dominio assoluto della ragione era crudeltà. Avrebbe seguito Kierkegaard, che cercava la verità non nella ragione, ma nell’assurdo, e che capì che la filosofia inizia proprio laddove le possibilità della ragione e del “visibile all’occhio” si esauriscono. In questo lungo testo scritto in memoria di Husserl, Shestov si rivolse a Shakespeare e parlò direttamente al suo amico:
“Ho dovuto ribellarmi alla verità evidente. Avevi profondamente ragione quando dicevi che il tempo era fuori asse. Ogni tentativo di esaminare anche la più piccola crepa nelle fondamenta della conoscenza umana manda il tempo fuori asse. Ma la conoscenza deve essere preservata a ogni costo? Il tempo deve essere rimesso in asse? O piuttosto, non dovremmo dargli un’ulteriore spinta e mandarlo in frantumi?”
Questo splendido elogio funebre fu l’ultimo scritto di Shestov. Morì il 20 novembre 1938, dopo aver vissuto abbastanza per assistere all’Anschluss e alla Conferenza di Monaco – e forse, questo fu sufficiente. Alla fine di settembre, Neville Chamberlain era tornato da Monaco a Londra e aveva detto agli inglesi: “Com’è orribile, fantastico, incredibile che dobbiamo scavare trincee e provare maschere antigas qui a causa di una lite in un paese lontano tra persone di cui non sappiamo nulla”.
Stanislav Aseyev completò il suo romanzo autobiografico nell’agosto del 2014, chiedendo nel capitolo finale l’indulgenza dei lettori mentre “brancolava verso il fondo,” scrivendo queste righe sotto il fuoco dell’artiglieria mentre i separatisti filo-russi tentavano di rovesciare lo stato ucraino. A quel punto sembrava una verità evidente che la guerra scatenata dalla Russia nel Donbas sarebbe stata proprio quella fatidica “lite in un paese lontano tra persone di cui non sappiamo nulla”.
Quando, nel marzo 1939, il presidente cecoslovacco Edvard Beneš affrontò l’invasione su larga scala del suo paese da parte della Germania nazista, decise di andare in esilio; il suo paese non combatté. Quando, nel febbraio 2022, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky affrontò l’invasione su larga scala dell’Ucraina da parte della Russia putiniana, decise di restare a Kyiv. Gli ucraini decisero di combattere. L’Ucraina, come la descrisse Volodymyr Yermolenko in quella primavera, era “un’Europa amletica che prende alla lettera la questione ‘essere o non essere’”.
Nel settembre 2022 un visitatore aveva una domanda per Zelensky durante un incontro a Kyiv. Come aveva saputo affrontare una situazione per cui nessuno avrebbe potuto essere preparato? “E’ tutto in Shakespeare”, rispose Zelensky.
Questo era ciò in cui credeva anche Shestov. Il suo primo libro era dedicato al drammaturgo inglese. “Per anni interi”, scrisse Shestov su Shakespeare, “il fantasma della natura accidentale dell’esistenza umana lo perseguitò, e per anni interi il grande poeta scrutò senza paura gli orrori della vita e gradualmente ne chiarì il senso e il significato”. Tornando a Kyiv dall’Europa occidentale nel 1898, l’anno della pubblicazione di quel libro, Shestov scelse di stare a casa di una delle sue sorelle, in Bibikovskii bul’var 62, un indirizzo che superai mentre guidavo con Volodymyr Yermolenko verso la Kyiv School of Economics lo scorso marzo.
Vent’anni dopo, Volodymyr, Tetyana e io salimmo sul palco per parlare delle Grenzsituationen, le “situazioni limite” che ci strappano alla quotidianità. La sala era piena, nonostante – o forse proprio a causa – della stanchezza di vivere secondo il ritmo degli allarmi aerei. Parlai di come fossi attratta da Kyiv non solo per l’attaccamento ai miei amici che stavano vivendo questa guerra, ma anche perché questa situazione di confine mi sembrava un luogo privilegiato di accesso epistemologico, i poli descritti da Shestov, dove il terreno ci sfuggiva sotto i piedi e le domande filosofiche si rivelavano con un’acuità inquietante.
“Gli uomini rispondono solo debolmente agli orrori che accadono attorno a loro”, scrisse Shestov nel 1905, “tranne in momenti in cui l’incongruenza selvaggia e straziante della nostra condizione si rivela improvvisamente ai nostri occhi, e siamo costretti a sapere cosa siamo. Allora il terreno ci scivola sotto i piedi”. Tetyana ha sottolineato che in questo momento di Grenzsituationen, il confine, il margine, è diventato il centro. Shestov sapeva che questa zona di confine era il centro, il Schwerpunkt, il punto focale da cui dovevamo cercare la verità. Certamente era empatico con coloro che, come Husserl, guardavano altrove. Aveva capito che la filosofia, con la sua ricerca di intuizione a priori, aveva avuto origine nella paura del nulla, che questa ricerca di fondatezza nella conoscenza era una ricerca di verità “increate, non dipendenti da nessuno, verità generali e necessarie, che immaginiamo ci proteggeranno dall’accidentalità del capriccio, che satura l'esistenza”. Era comprensibile che lo desiderassimo. Ma Shestov sapeva che nella vita non c’è protezione e nessuna consolazione. “Aristotele poteva parlare della grandezza e della bellezza del tragico: lo vedeva sul palcoscenico”, scrisse Shestov in Atene e Gerusalemme , il suo ultimo libro. “Ma per l’uomo che ha vissuto la tragedia nella propria anima questi termini non hanno alcun significato. La tragedia è l’assenza di qualsiasi via d’uscita. Non c’è nulla di bello in questo, nulla di grande; è solo bruttezza e miseria”.
Shestov completò Atene e Gerusalemme nel 1937, durante il Grande Terrore. Quell’anno il suo amico Gustav Shpet fu condannato a morte ai sensi dell’Articolo 58 per attività antisovietica; fu giustiziato in Siberia. Prima della sua esecuzione, Shpet riuscì a completare la sua traduzione russa della Fenomenologia dello spirito di Hegel.
Per Hegel, l’etica richiedeva il sacrificio dell’individuo al tutto. Questa era la provocazione di Dostoevskij contro il dialettico tedesco: se tutta la felicità del mondo potesse essere assicurata dalla tortura a morte di “una sola minuscola creatura”, Ivan Karamazov chiese al suo fratello cristiano Alyosha, “accetti di essere l’architetto a tali condizioni?” “No”, ammise Alyosha, “non accetterei”. Come Ivan Karamazov, Giobbe si rifiutò di accettare una giustificazione trascendente per la sofferenza. L’insistenza di Shestov sul valore del singolare, in solidarietà con Giobbe, non era solo una posizione epistemologica, ma anche morale.
Nei miei anni di lettura di Shestov, soprattutto come interlocutore di Husserl e personaggio di un racconto centroeuropeo sulla ricerca della certezza epistemologica e della verità assoluta, non avevo pienamente assorbito cosa intendesse con l’irriducibilità del singolare. Ora questa guerra raccapricciante che è e non è mia mi ha fatto capire. Shestov, ora lo so, è il pensatore di cui abbiamo bisogno per comprendere ciò che il regista ucraino Mstyslav Chernov ci ha mostrato in 20 Days in Mariupol, un documentario girato tra febbraio e marzo 2022 durante l’assedio russo della città portuale ucraina. La telecamera si è accesa sulla madre che piangeva nuda ai dottori che non riuscivano a salvare il suo bambino ferito; sul padre che scopriva che il figlio adolescente, che aveva appena giocato a calcio fuori, era ormai un cadavere; sul bambino che urlava per la madre che non sarebbe mai tornata. “Chi ci restituirà i nostri figli?”, gridava una giovane donna. “Chi?”. E’ stata la disperazione più cruda che abbia mai visto su pellicola. Colta in tempo reale, prima di ogni riflessione, la disperazione messa a nudo nella sua insopportabile primordialità.
Ci sono momenti di sofferenza così assoluti che non possono in alcun modo essere paragonati, non possono essere “superati” e “riconciliati” nei termini di Hegel. L’angoscia di ogni genitore che vede il proprio figlio dilaniato da un’esplosione è assolutamente, irriducibilmente singolare. Il quarantottenne Yaroslav Bazylevych, ferito e sanguinante, ha visto sua moglie e le loro tre figlie tirate fuori – morte – dalle macerie del loro condominio a Leopoli, fatto esplodere da un missile russo. Non può esserci mediazione in questo tipo di sofferenza. La filosofia di Shestov è iniziata con un rispetto per quell’irriducibilità, che non può essere sublimata in una logica superiore. “Guardando il volto di Shestov, così come emerge dai suoi libri”, scrisse il pensatore russo Viktor Erofeev nel 1975, “vedi che il suo volto è distorto da uno spasmo terribile, nato dal sentimento della natura tragica dell’esistenza umana individuale, consegnata al proizvol del caso e della morte. A questo proizvol Shestov ha contrapposto il suo stesso controproizvol.
Qual era il controproizvol di Shestov, la sua resistenza al capriccio cosmico e alla crudeltà? Si rivelò, forse, come un negativo: che tutto fosse possibile non significava che tutto fosse permesso. Accettare che Dio fosse proizvol non significava schierarsi dalla parte di Dio contro la sofferenza di Giobbe, o giustificare la sofferenza di Giobbe in nome di una razionalità superiore. Il rifiuto della ragione da parte di Shestov – fosse kantiana, hegeliana o husserliana – non era irrazionalismo in senso nichilista. L’empatia di Shestov per Giobbe era un’affermazione di verità svelata nei momenti più bui. Era un’affermazione di vita e di amore.
Quando, anni fa, iniziai a leggere Shestov per capire meglio Husserl, non avrei mai immaginato il rifugio antiaereo di Podil e quanto mi sarei sentita vicino a Shestov lì. La mattina del 21 marzo 2024, poco dopo le sei, quando il sole era già sorto, un coro non di chiavi tintinnanti ma di allarme aereo sulle app sugli smartphone annunciò che la minaccia immediata era passata. L’attacco missilistico era finito. Salii le scale dal rifugio antiaereo all’hotel.
Quella mattina il Cremlino aveva lanciato trentuno missili da crociera e balistici su Kyiv. Le difese aeree ucraine li avevano intercettati tutti e trentuno. Erano diventati estremamente abili. Ma erano quasi senza munizioni. Molti mesi erano passati senza aiuti americani. Nel frattempo, Stanislav Aseyev scriveva – e postava foto di gatti – dalla prima linea a est. E’ un sussurratore di gatti; i gatti abbandonati che ha adottato gli facevano compagnia nelle trincee. Un giorno aggiunse un messaggio: se non fossero arrivate più munizioni in fretta, presto sarebbero stati i russi a decidere se i gatti avrebbero mangiato o meno. “Conto su quei gatti per vegliare su di te”, gli scrissi. Aggiunsi che i gatti nelle sue foto sembravano molto più calmi e coraggiosi di quanto sarei stata io al loro posto.
“Ma loro non sanno nulla di Shestov”, rispose.
Marci Shore, professoressa di Yale e autrice di diversi saggi, studia e insegna la storia intellettuale dell’Europa centrale e orientale. Nei prossimi mesi uscirà per Castelvecchi editore “La notte ucraina. Storie da una rivoluzione”. Questo saggio è stato originariamente pubblicato sulla rivista Liberties.
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