L'altro Chatwin: vita, morte, miracoli e film di Mark Peploe, sceneggiatore da Oscar


Mark Peploe era nato il 24 febbraio 1943 a Nairobi, Kenya (foto gentilmente concessa dalla famiglia Peploe)
Il Foglio Weekend
In famiglia tutti scultori, pittori, funzionari alla Evelyn Waugh e pure l’inventore della anestesia dentistica. Il cinema era l’ultima spiaggia. La strana ossessione per Andreotti e gli appunti per un “Divo” che non si fece mai. Whisky, giornali, e gli stivali tamarri che stavano bene solo a lui
Era l’ultimo degli chatwiniani. Mark Peploe, morto il 18 giugno a Firenze a 82 anni, era l’estremo precipitato di una razza rarissima, una genìa anglo-nomade-bohémienne che appunto aveva visto il suo miglior campione in Bruce Chatwin, l’esploratore inglese foderato in pelle e ricoperto di tinte pastello Adelphi. Non aveva mai pubblicato un romanzo ma così en passant senza metterla giù dura aveva preso un Oscar per la sceneggiatura di “L’ultimo imperatore”, capolavoro bertolucciano del 1987. Con BB aveva scritto anche altri kolossal come “Il tè nel deserto” e “Piccolo Buddha”, ma di Bertolucci sembrava soprattutto un personaggio, nato com’era in una famigliona multilingue che non basterebbe un Chat Gpt allenato tra Tatler e National Geographic per inventarla: sua madre era Clotilde Brewster, detta Clo-Clo, pittrice, detta anche “the goat” per come riusciva a saltellare da una roccia all’altra dell’isola greca di Amorgòs dove risiedeva a lungo. Era nata nel 1915 a Firenze nel convento di San Francesco di Paola da cui si gode la migliore vista sulla cupola di Brunelleschi. La magione ancora appartiene alla famiglia, e lì Peploe è morto il mese scorso: era stata comprata nel 1874 dall’antenato Adolf von Hildebrand, il più grande scultore tedesco dell’Ottocento (pure la figlia Elisabeth von Hildebrand era una notevole pittrice): tutti parte di quella comunità di émigré di lusso, gli “anglobeceri” che affollavano Firenze. “Passavamo tutti i Natali lì al convento, anche se non avevamo mai i soldi per il biglietto”, racconta al Foglio la figlia di Mark, Lola, in un misto di inglese-francese-italiano, al telefono dalla Normandia. Clo-Clo era famosa per servire “un té lapsang souchong e biscotti molto molto rinsecchiti”, raccontò qualche altro parente al Financial Times. Eppure un’iniezione di liquidità era arrivata nella stirpe da Henry Brewster, americano inventore della moderna anestesia dentaria nonché “l’ultimo grande scrittore di missive epistolari” secondo Henry James che era ovviamente amico di famiglia.
Dal lato paterno invece Mark era nipote del pittore scozzese S.J. Peploe e figlio di Willy Peploe che aveva scelto di fare il gallerista e prima il funzionario pubblico in luoghi esotici, fuggendo il confronto con questo micidiale albero genealogico di cervelloni. In casa, si dice che i genitori di Peploe non tollerassero alcun manufatto artistico creato dopo la morte di Proust; e l’amore per il cinema nacque nei due fratelli Mark e Clare poiché era l’unico mezzo di espressione che i loro parenti non avessero già affrontato con enorme successo (e sprezzatura: la madre dipingeva per sé, senza vendere i quadri: che volgarità). La storia di casa è narrata nel documentario “Grandmother’s footsteps” di Lola. “Mark non era certo un padre tradizionale, di quelli che ti accompagnano a scuola”, dice al Foglio, “e il massimo che mi abbia mai cucinato fu credo un uovo bollito. Però era un padre favoloso da cui si imparava tantissimo; facevamo dei viaggi incredibili. Con lui era normale trovarsi in un’oasi in mezzo al deserto”. O sul set di “Io ballo da sola”, il film di Bernardo Bertolucci del ’96 dove Lola recita Gabriella, una ragazza del posto sedotta da un nobilotto locale.
A un certo punto nella tribù dei Peploe irrompe infatti Bertolucci, sposando Clare. Era stato peploizzato, come tutti. “I due fratelli erano fascinosissimi, al punto che qualcuno a un certo punto coniò il verbo ‘to peploe’, cioè ammaliare, ipnotizzare. Quando entravano in una stanza si voltavano tutti. Siamo stati tutti a un certo punto peploizzati”, racconta al Foglio Francesca Marciano, scrittrice e sceneggiatrice. I due peploizzatori, Mark e Clare, erano nati a Nairobi, ultima tappa del feuilleton della loro augusta prosapia che incontrava (ma senza darvi troppa importanza) i rovesci della Storia: durante la Seconda guerra mondiale si erano spostati prima a New York, poi Atene, poi Cipro e Palestina, infine si fermano in Kenya dove il padre diventa uno di quei funzionari statali inglesi da romanzo di Evelyn Waugh (che sicuramente sarà stato amico loro). “E’ stata una beatitudine crescere lì per una bambina. Non avevo giocattoli, ma non credo mi siano mancati; avevo i millepiedi con cui giocare a palla” raccontò Clare in “Grandmother’s Footsteps”.
Nel deserto sul set di “Lawrence d’Arabia”, e poi con Michelangelo Antonioni, che rimane un anno in hotel a Londra per girare “Blow Up”
I ragazzi peploizzatori scorrazzano scalzi e sgarrupati-chic per il Novecento isole comprese: curiosissimi di tutto fanno il loro apprendistato tra Afghanistan e Nepal in autostop, poi non vanno al grest o a Gardaland come noi bensì assistono al processo Eichmann a Gerusalemme, ma il capolinea predestinato è l’unica arte che gli avi non avessero illustrato. Dal peplum a Peploe, con due amici in Marocco, persi tra qualche oasi, Mark a un certo punto trova un cartello rosso tra le dune con su scritto: “Lawrence d’Arabia”, e si imbatte in Peter O’ Toole tutto impolverato che sta facendo la storia del cinema. Lì scatta “l’amore per il deserto e l’idea che appunto quell’arte, la settima, può essere un’ottima maniera per passare la vita”, come raccontò Mark al festival del documentario Sole Luna in Sicilia nel 2017. Con mammà tornano a Londra dove lei rimpiange l’Italia e la Grecia (e Ponza, di cui furono i primi pionieristici turisti, per mesi, d’estate), e lui va a Oxford al celebre Magdalen College dove studia soprattutto la Guerra Fredda, indeciso tra il giornalismo e il cinema; poi comincia a fare documentari con la BBC: in cerca di animali guida corre a Brasilia a incontrare Oskar Niemeyer che sta costruendo la città bianca dei rossi sogni socialisti, ma rimane deluso. Poi riprova con Max Frisch in Svizzera, poi dalla pasionaria greca Melina Mercouri. Ma la forma del film “non fiction” non gli piace, e rimane deluso un’altra volta. Comincia allora a scrivere sceneggiature, firma l’ultimo film di René Clement, “La Babysitter” (1975); ma l’incontro fondamentale è con Antonioni. Mark era stato sul set di “Zabriskie Point”, a Phoenix, Arizona, col regista ferrarese a premere il pedale della più citata esplosione cinematografica della storia del cinema, “con una tonnellata di tritolo, l’aeroporto di Phoenix chiuso al traffico aereo per giorni e 17 macchine da presa”, dirà sempre Mark. Ma Antonioni era stato peploizzato a Londra molti anni prima. “Michelangelo era nella capitale inglese nel ‘65 per i sopralluoghi per Blow Up”, racconta al Foglio Gianni Massironi, sceneggiatore, regista e produttore che per anni ha lavorato con Antonioni. “Furono i Peploe a introdurlo nella Swinging London, proprio mentre questa nasceva”. “Antonioni non conosceva per niente Londra, e ‘Blow Up’ doveva essere girato a Roma, ma Antonioni era stufo dell’Italia dell’epoca, e aveva deciso che voleva diventare un regista internazionale”, raccontò Mark. “Aveva sentito che a Londra c’erano i Beatles, e si piazzò per un anno all’hotel Savoy insieme a Tonino Guerra”. Un anno? “Erano tempi così, era un cinema che ti permetteva queste cose”, continua Massironi. Altro che tax credit e Rexal Ford. “Un giorno in albergo Antonioni incontra in ascensore la più piccola delle sorelle Peploe, Cloe, perché c’è pure una terza sorella, e ne rimane naturalmente affascinato. Non gli pare vero di incappare in giovani londinesi che possano farlo entrare in questa benedetta Swinging London, e lei aveva il vantaggio di parlare pure un po’ di italiano; insomma. Antonioni va a casa Peploe. Che naturalmente non è una casa normale. I tre fratelli vivevano infatti insieme in un appartamento a Chapel Street, Belgravia, “una sorta di hub bohémien”. Gli attori di teatro passavano per un drink dopo le rappresentazioni serali. Diversi inquilini vivevano lì con le sorelle e il fratello Mark, in una certa allegra confusione (di nuovo, Bloomsbury).
Quando Antonioni si presenta non c’è nessuno in casa tranne un grosso serpente che striscia sul pavimento verso di lui - era scappato dal suo rettilario al piano di sopra. Proprio mentre il grande regista si sta chiedendo se sia il caso di tornare al Savoy, appare Clare. La sorella piccola lo presenta alla sorella grande. “E’ lei quella giusta per te”, gli dice la piccola, “perché è ossessionata dal lavoro”. Ed era vero: diventerà musa prima di Antonioni e poi di Bertolucci, sua unica moglie e regista in proprio. “A Bertolucci insegnò la differenza tra fare turismo e viaggiare veramente”, racconta al Foglio Valentina Ricciardelli, presidente della Fondazione Bertolucci e nipote del regista. “Era la persona più elegante che abbia mai incontrato. Era timida, misteriosa, ma diventò la sua roccia”. Sopravvisse a Bernardo fino al 2021, quando è mancata.
Dai racconti, Antonioni invece non doveva essere proprio uno scapestrato. “Al Savoy mangiava sempre da solo, perché non gli andava di parlare con nessuno, e a lungo andare notò che c’era un altro signore che mangiava pure lui sempre solo. Dopo molti pasti finalmente i due solitari un giorno si rivolsero la parola, e l’altro taciturno si scoprì essere Edward Heath, primo ministro britannico in carica, anche lui in fuga dagli scocciatori”, racconta sempre Massironi. Perché la storia di Mark Peploe è anche una grande storia alberghiera del Novecento. “Lo vedevo spesso, a Parigi, all’Hotel La Louisiane”, mi racconta Alain Elkann, che era suo amico. “Un albergo non lussuoso, ma con una storia. Era lo stesso al 60 di Rue de Seine in cui avevano abitato Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, dal 1943 alla fine della guerra, e poi Albert Camus, Boris Vian, Salvador Dalì”. Ci sono passati in diverse epoche anche Verlaine e Apollinaire, e Juliette Gréco che occupava la stanza 10 (dove nacque la sua storia d’amore con Miles Davis). E ancora Hemingway, Saint-Exupéry, Henry Miller…
La rivalità Bertolucci-Antonioni e il piccolo clan: “Lo so da che parte state”. Clare Peploe musa timida ma rocciosa del regista di “Novecento”
Nelle quinte di un’epoca ancora analogica, senza lanzichenecchi né ciabatte né Final Draft, “Peploe scriveva le sue sceneggiature sempre con una stilografica, un’enorme Mont Blanc, o con una macchina da scrivere Hemes”, continua Elkann. “Scriveva tutta la notte”, conferma la figlia Lola. “Mai usato un computer. Invece, disseminava le sue stanze di post-it gialli”. Com’era come sceneggiatore? “Un incubo, per un regista. Cesellava ogni parola alla perfezione, sosteneva che una sceneggiatura doveva essere come una poesia”, dice Massironi. La poesia raramente diventava prosa, e tantomeno realtà. Il primo grande successo di Mark Peploe è la sceneggiatura di “Professione: reporter”, classicone di Antonioni del ’75 con Jack Nicholson, storia di un giornalista di successo ma ormai stanco e annoiato dalla vita, che scopre un giorno la possibilità di ricominciare tutto da capo: rinvenuto il cadavere di un uomo che gli somiglia, inscena una finta morte e assume l’identità del defunto, che però si sta ribellando a un dittatore africano. Peploe questo film lo voleva dirigere lui, col titolo di “Fatal Exit”. Ma il film rimane nel cassetto per anni, e a un certo punto Carlo Ponti leggendario produttore chiama e chiede di farlo fare ad Antonioni. Premio di consolazione: durante le riprese Antonioni convince Louise Stjernsward (morosa e poi moglie di Mark, mamma di Lola, anche lei con quell’eleganza che consiste nel mettersi un paio di braghe corte e una t-shirt e una collanina di perline, valore totale 39 euro, e poi però mischiare tutto nel Bimby di uno chic che ti deriva da almeno dieci generazioni di scappati di casa in tre lingue, a surclassare tutte le altre che hanno profuso tempo e mezzi nell’outfit) e le affida i costumi: “Voglio solo che i personaggi assomiglino a te”. Così inizia la carriera di costumista di Louise, che farà tra gli altri “The Dreamers”. Ma “Professione: reporter” simboleggia bene anche “la radicalità della passione politica di Peploe”, racconta Massironi. Era infatti ossessionato dalla politica: per una fase studiò tutto lo studiabile sull’assassinio di Kennedy, “che fu un trauma della mia vita”, raccontava, poi si rivolse a questioni più italiane con quella passione che travolge a un certo punto gli augusti stranieri (alla Gore Vidal, addirittura appassionato alle beghe regionali campane quando stava a Ravello); “Calvi, la P2, Moro, Andreotti. Era fissato con Andreotti, aveva interi scatoloni di appunti su di lui, e insieme scrivemmo non so più quanti trattamenti per un film, molto prima del ‘Divo’ di Sorrentino. Ma non se ne fece mai niente”, ricorda Massironi. Nel frattempo, incidentalmente, Clare e Antonioni si erano lasciati e lei sposava Bertolucci. Ma il fantasma del rivale ferrarese resterà per sempre. Nel piccolo clan del regista di “Novecento”, di cui i due Peploe erano parte fondante, “Bertolucci amava mettere tutti un po’ uno contro l’altro, e ci mostrava i film quasi finiti avvertendoci: lo faccio vedere solo a te, non dirlo agli altri due. Quando qualcuno di noi tre suggeriva qualche modifica, lui saltava su: ah, lo so io da che parte state! E intendeva Antonioni”, racconta ancora Massironi. E litigava mai con Peploe e coi suoi sceneggiatori? “Era difficile, ma con Mark successe una volta sola quando Bernardo per compiacere Debra Winger modificò il finale del ‘Tè nel deserto’”.
Ma alla fine come campavano questi magnifici scombiccherati Peploe? Ogni tanto si vendevano qualche quadro del nonno, raccontano. “O qualche sceneggiatura. Anche se poi i film non si facevano, erano pagate bene all’epoca”, continua Massironi. “Mark e Clare erano inseparabili. Quando non stavano insieme si sentivano molte volte al giorno e lei sul letto di morte l’ultima telefonata l’ha fatta a lui: sussurrandogli: sei sempre stato il mio alter ego”, racconta la figlia Lola. Uno dei progetti più cari a Mark è rimasto, come spesso capita, incompiuto: “Heaven and Hell”, sontuosa biografia del compositore del XVI secolo Gesualdo da Venosa, famoso sia per aver ucciso la prima moglie e il suo amante, sia per aver inventato il modernismo musicale secoli prima di chiunque altro. Bertolucci voleva dirigerlo lui, poi dopo la sua morte nel 2018 anche Martin Scorsese mostrò qualche interesse, ma poi fu distratto da altri progetti e come spesso succede nel cinema non se ne fece niente.
Intanto Peploe che doveva fa? Peploizzava: cuori infranti (molti), e memorie indelebili. Il produttore inglese Jeremy Thomas l’ha ricordato così: “La sua massima felicità era bersi un whisky o un cappuccino in una piazza romana, l’Herald Tribune in tasca e un quaderno in mano”. Pare che avesse anche lui, come noi umani, un tocco tamarro: degli stivali da bovaro che portava continuamente e a cui era affezionatissimo. Ma che per qualche strano motivo su di lui risultavano eleganti. Perfetti per un cappuccino romano o per un tè nel deserto (con queste temperature è lo stesso, solo con meno traffico, vabbè).
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