La comitiva degli inviati: quando la guerra è (anche) uno spettacolo


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L’impudica satira di Evelyn Waugh sui corrispondenti, di nuovo sotto i riflettori ora che le guerre riempiono i giornali. Velleità, cablogrammi e scoop fasulli
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Le guerre deflagrano rovinose e spietate in tutto il mondo e in questo momento così speciale torna pure l’epopea degli inviati molto speciali. Eccoli di nuovo. Si muovono in gruppo come in una esclusiva setta internazionale, parlano tutti la stessa lingua (l’Inviato Collettivo, cit.), vanno in comitiva negli stessi caffè in cui si scambiano pareri pressoché identici, affollano gli stessi alberghi, si avvalgono dell’aiuto degli stessi informatori del posto – spesso doppiogiochisti, spesso bugiardi – indossano la tenuta speciale dell’inviato speciale. È il loro momento, carichi di ambizioni e di prosopopea, fieri di stare sul “posto” anche se il posto non è una trincea ma una retrovia, o al massimo da raggiungere “embedded”, muniti di quella scritta, “Press”, che li fa sentire, loro inviati speciali, di una pasta speciale. Il mito dell’inviato speciale ci fa sentire tutti troppo abitudinari, troppo libreschi. Mentre loro sono così adrenalitici, e affrontano rischi e proiettili, così al riparo dal senso del ridicolo. O no?
No. Nel 1938 Evelyn Waugh, già fugacemente toccato dal mestiere di inviato in Abissinia, e che infatti era considerato molto conservatore se non apertamente reazionario, ebbe l’impudicizia di satireggiare, diciamo pure di mettere alla berlina in modo esilarante, la squisita comitiva degli inviati speciali, e proprio con il titolo “L’inviato speciale” la casa editrice Guanda ha tradotto quelle pagine argute che in questi giorni vengono riproposte dalla casa editrice Feltrinelli con il titolo originario “Scoop”. Premessa: chi, come l’Ordine dei giornalisti, non è dotato di senso dell’umorismo, in questo caso di senso dell’umorismo così inequivocabilmente britannico e tardoimperiale, si farà il sangue amaro a riproporre quella delicata e perfida presa in giro degli inviati speciali e dei giornalisti in generale quando, accade spesso e adesso sempre più spesso, si sentono più depositari di una missione che soltanto modesti funzionari della notizia. Succede, nella satira di Waugh, che stia scoppiando una feroce guerra in un’immaginaria Ismailia, dove (in qualche parte dell’Africa) non si capisce chi combatta, dove, perché, come, chi abbia ragione, chi torto, se ci sia una ragione, se ci sia un torto: ma succede. E Fleet Street, quartier generale del giornalismo londinese e mondiale – ma Londra è già il mondo – entra in subbuglio per raccontare ogni dettaglio della misteriosa battaglia che starebbe insanguinando Ismailia. Un paese africano poco incline alle procedure democratiche e molto devoto al dittatore Jackson e alla sua vorace famiglia: “Tutte le cariche dello stato erano detenute dai signori Garnett Jackson, Ander Jackson, Huxley Jackson” e così via. “Era tale l’amore della Repubblica” per la famiglia Jackson, scrive il velenoso ed eurocentrico Waugh, “che le elezioni erano note come ‘Jackson Ngomas’ sempre che si tenessero”.
Il gong della grande mobilitazione suona a Londra con titoli sempre più gridati: “Crisi ismaelita e duro monito della Società delle Nazioni” (madre dell’Onu, ma sempre prodiga di tonitruanti moniti). Al “Daily Beast” pregustano gli scoop: “Pensiamo che sia una guerricciola assai promettente. Un microcosmo, per così dire, del dramma mondiale”. Decidono di mandare al fronte dell’Ismailia il grande scrittore John Courtney Boot, ma il caporedattore esteri del Beast, che “pensava con tristezza a quei giorni spensierati quando era lui a scegliere le vignette per uno dei settimanali umoristici” del gruppo, sbaglia clamorosamente indirizzo e chiama per l’avventurosa impresa il quasi omonimo William Boot, titolare di una rubrica bisettimanale dedicata alla natura e inserita tra “Bibì e Bibò” e “Morbidi coniglietti”, con l’avvincente titolo “Luoghi lussureggianti”, prezioso catalogo di squisiti elzeviri con incipit come questo: “A passi lenti nel felceto acquitrinoso, scivola il microto in caccia”. Con un telegramma gli intimano di presentarsi, proprio lui che l’Ismailia non l’ha mai sentita nominare. Ma gli spiegano i primi passi del buon inviato speciale con l’illustrazione di uno dei prerequisti del mestiere: spendere in conto spese. “Supponiamo che lei voglia cenare. Bene, va in un ristorante e si sbafa quanto c’è di meglio. Diciamo che il conto sia di due sterline. Lei ne addebita cinque in conto spese. Una cena coi fiocchi, intasca tre sterline e tutti sono soddisfatti”. Ma a una condizione: “Vogliamo notizie che facciano scalpore e un po’ di colore locale”. Boot domanda timido: “Per cosa si fanno la guerra?”. Risposta: “ma questo sta a lei scoprirlo”.
Dopo un lungo e avventuroso viaggio, il nuovo inviato speciale in zone di guerra incontra i colleghi in piena effervescenza: “Wenlock Jakes trascorreva il pomeriggio lavorando al suo libro di imminente pubblicazione intitolato ‘Sotto l’ermellino’” che cominciava con “Mai dimenticherò la sera dell’abdicazione di re Edoardo”. Pappebnhacker del “Twopence” giocava con un trenino elettrico che “fungeva da sedativo per la sua mente in perenne ebollizione”, soprattutto dopo aver faticato a compilare e a spedire via cablogramma (mica c’erano le mail) una “lunga panoramica della situazione ismailita”. Gli chiedono cosa sia venuto a fare in quella terra inospitale e lui: “Mi hanno detto di andare al fronte”; “E’ quello che tutti noi vorremmo fare. Ma in primo luogo non c’è nessun fronte”; “Allora tu cosa mandi?”; “Pezzi di colore, preparativi nella capitale minacciata, mercenari, uomini misteriosi, influenze straniere, volontari. Non ci sono notizie concrete. Il quartier generale fascista è lassù tra i monti, chissà dove. Nessuno può dirlo”.
Ma a un certo punto la grande scossa. All’Hotel Liberty (uguale a tutti gli hotel in cui si raduna la comitiva degli inviati speciali) si diffonde l’incontrollata e angosciante sensazione che il collega “Schumble avesse in mano qualcosa di concreto. William lo seppe da Corker che lo aveva saputo da Pigge. Pigge lo aveva intuito da qualcosa di strano nel comportamento di Shumble a cena, una certa distrazione, come per una forte eccitazione tenuta a stento”. Si scambiavano allarmi: “Se vuoi sapere la mia, quello ha un suo segreto”. “Staremo svegli a turno e con le orecchie tese. Può darsi che parli nel sonno”.
Panico. Un inviato a corto di notizie ferma un indigeno che però scappa a gambe levate appena sente pronunciare la parola “polizia”. Si arrende e sdottoreggia con le formule più logore: “Mi limiterò a comunicare che il governo è disposto a cooperare con le democrazie di tutto il mondo per ogni iniziativa volta a promuovere la pace e la giustizia, ma che è certo di riuscire e mantenere l’ordine senza interventi stranieri”. E’ uno scoop falso, quello di Shumble dell’ “Echo”, ma da Fleet Street in subbuglio partono sciami di telegrammi angosciati per quella indiscrezione sulla pur fantomatica “presenza di un ambasciatore russo”. Disperazione per il clamoroso “buco” nelle redazioni. A Londra esigono spiegazioni dagli inviati speciali presi per il naso dall’autore del presunto scoop. Gli inviati speciali sono perentoriamente invitati a rimediare e colmare lo svantaggio: “Maltravestito ambasciatore sovietico seguirne tracce”; “Echo gran risalto segreto arrivo agente rosso trasmetti intervista”. Il tono si fa minaccioso: “Prego indagare autenticità presunta delegazione speciale sovietica stop spedisci telegramma differito”; “Echo londinese riferisce inviato russo organizzatore arrivato sabato travestito funzionario ferroviario stop Mosca nega stop smentisci o conferma con particolari”. Dal suo giornale arrivano a Shumble i complimenti più vivi: “Scoop mondiale congratulazioni. Continua”. Ma quale scoop, si tratta di una colossale balla. Lo conferma una nota governativa indignata (di quale governo? Non si sa): “Si smentisce categoricamente che un diplomatico russo sia accreditato presso la Repubblica di Ismailia. Sul treno si trovavano soltanto rappresentanti della stampa straniera e un impiegato delle ferrovie”. La notizia-bomba muore sul nascere. Scatta la vendetta dei colleghi redarguiti dalle furibonde testate di Fleet Street. Boot invia un testo indignato: “Tutte balle circa bolscevico è solo bigliettaio asino. Telegraferò ancora se altre notizie qui umidissimo vostro William Boot”.
Gli altri inviati avevano “esultato in segreto quando lo scoop di Shumble aveva fatto cilecca”. Ma adesso l’agguerrita carovana scopre che l’epicentro della finora invisibile guerra è localizzato a Laku. Tutti a Laku. Ma Laku, apprendono con sgomento, non esiste: “Questa località è segnata come una città di circa cinquemila abitanti a un’ottantina di chilometri a nord di Jacksonburg. Bene, un luogo del genere non è mai esistito. Laku in ismailita significa infatti ‘non lo so’. Quando nel 1898 quelli della commissione incaricata di tracciare i confini cercavano di raggiungere il Sudan, si accamparono in questo posto e chiesero a uno dei boys il nome della collina per segnarlo sul loro registro. Il boy rispose: ‘Laku’ e da quel momento la denominazione è stata riportata di mappa in mappa. I francesi hanno persino nominato un console a Laku”.
Nelle redazioni dei giornali cresce come un uragano alle porte il nervosismo. Gli inviati speciali in conto spese non fanno nemmeno un passo avanti. Partono le sollecitazioni imperiose. Boot viene investito da una tempesta via cablo: “Telegrafi più pienamente più spesso più prontamente stop suo servizio terribilmente confuso mancante interesse umano colore dramma personalità umore informazione avventura vitalità”. Le cose cominciano a mettersi male e anche il conto spese si fa più magro. Bisogna considerare che la missione degli inviati speciali era molto onerosa: boys, cuochi, “boys dei cuochi”, guardie del corpo, mulattieri, carovanieri “reclutati a prezzi esorbitanti, i viveri incettati, rivenduti e ricomprati prima di giungere alle rivendite dei giornalisti”. I quali “giornalisti” decidevano all’unanimità di imitare la tenuta dei colleghi francesi: sombrero, calzoni lunghi di spessa tela o brache da equitazione, sahariane, panciotti antiproiettile, fondine, cartuccere, stivali nuovi di zecca, coltellacci. Tutta la hall del Liberty ne venne riempita. Ammazzavano il tempo nei luoghi di ritrovo e con la loro invasione i prezzi raddoppiavano, scoppiavano litigi cruenti: “Il corrispondente del ‘Methodist Monitor’ era stato catturato e legato con una rete e un fotografo aveva perso un dente”.
A Londra i principi dell’editorialismo sedentario si davano un gran daffare, sprofondando nel ridicolo magniloquente come i colleghi partiti per quei luoghi così pericolosi. Il “primo opinionista” si mette subito a lavorare: “Devo scrivere un fondo sulla questione ismailita”, perché l’editore gli aveva intimato: “Deve lasciare senza fiato il governo”. Sconcerto del primo opinionista: “Ma io non so niente. Di che cosa devo parlare? Che ci stanno a fare gli inviati speciali? Perché non telegrafate a quel Boot e non gli date la sveglia?”. Poi però si adegua e scrive un editoriale vibrante di indignazione: “Devo denunciare nella maniera più decisa l’indecisione del governo. Quelli che se ne stanno con le mani in mano mentre Ismailia è in fiamme. Una scintilla ha appiccato l’incendio a una pietra angolare della civiltà, ne scuoterà le fondamenta come un vento di tempesta”. La pazienza di Fleet Street è finita. Dal “Beast” scrivono a Boot: “Sorpassati da tutti giornali per tutti servizi. Suoi telegrammi non arrivati temiamo interferenza sovversiva comunichi immediato ricevimento nostri”. E poi il colpo di grazia: “Suo contratto concluso stop dia ricevuta mesi preavviso stop Beast”.
Ma un attimo prima di ricevere il benservito Boot entra fortunosamente in contatto con una avventuriera che si dice amica della sorella “della governante dei figli del presidente” e che perciò si proclama informatissima e al corrente di quel che accade nella martoriata Ismailia, dunque pronta a collaborare, ma solo a una condizione: “Il tuo giornale ti paga le spese?”. E così Boot, grazie al conto spese, ha l’imbeccata giusta che mette fuori combattimento il resto della masnada e invia il cablogramma che costringerà tutti i suoi colleghi-rivali tutti a tacere: “Non molto est accaduto salvo presidente che è stato imprigionato nel proprio palazzo da giunta rivoluzionaria capeggiata da arrogante negro chiamato Benito et ebreo russo che Bannister dice essere intrigante dicono che est sbronzo quando suoi figli tentano di vederlo ma governante dice molto insolito bellissimo tempo primaverile imperversa peste bubbonica”.
Queste righe faranno il giro del mondo. Al suo giornale si congratulano: “Ragazzo sveglio, quel Boot. L’uomo giusto per quel compito”. Lo vogliono nominare baronetto mentre la giunta rivoluzionaria di Ismailia emette i propri stravaganti ordini esecutivi che anticipano di qualche decennio il Woody Allen dello “Stato libero di Bananas” e i proclami sui dazi di Donald Trump: “Abolizione della domenica per una settimana di dieci giorni di dieci ore di lavoro”. Boot è stanco, vuole tornare nella sua campagna. Non va alla cerimonia che lo dovrebbe insignirlo del titolo di baronetto e torna alla sua amata rubrica sui “Luoghi lussureggianti”. Memorabile l’incipit della nuova puntata: “I carri si muovono pesantemente lungo il sentiero sotto la loro gloria dorata di covoni mietuti; materni roditori guidano la loro pelosa progenie tra le stoppie”. L’Ismaelia è lontana. Ogni allusione a fatti e persone attuali è puramente casuale.
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