Lavazza: «Crediamo in Sinner da quando aveva 17 anni»


«Volevamo sponsorizzare un giocatore italiano, giovane, ci interessava dare questo segnale di attenzione e un nostro collaboratore molto esperto ci ha detto “dovete puntare su Jannik. Gli altri possono diventare bravi però secondo me lui è fenomenale”. Sinner aveva 17 anni ed era 140° del ranking Atp». Giuseppe Lavazza, presidente dell’azienda sempre più legata al tennis (è presente a Wimbledon, Roland Garros, Us Open, Atp Finals, Shanghai e Madrid), racconta nella lounge vicina al Campo 1, a Wimbledon, com’è nato il connubio con il numero uno del mondo. Sfoggiando, naturalmente, un cappellino bianco dello Slam con la firma del campione.
«Allora non lo conosceva nessuno. Fu Benito Perez Barbadillo (responsabile della comunicazione di Rafa Nadal e tuttora molto vicino alla famiglia, ndr) a indicarcelo. Grazie a lui abbiamo vinto la scommessa. C’erano Berrettini e altri tennisti promettenti, ma Jannik poi è esploso. Mi ricordo ancora quando alle Finals entrò come riserva, come un ragazzino da prendere a pallate, e l’anno dopo li ha battuti tutti… è capitato tutto in modo molto rapido»
Lei lo conosce da vicino, che idea se n’è fatto?
E’ un professionista serissimo, concentratissimo, la sua dedizione è totale: dal punto di vista sportivo è un modello assoluto. Rimane una persona semplice, quando lo vedo mi sembra di parlare con un uno dei miei figli (tre, una di 25 anni, uno di 24, uno di 22, ndr). Pur essendo un grandissimo campione resta semplice e questo lo rende ancora più particolare, come uomo e come professionista. Naturalmente è una persona decisa, sa cosa vuole, assume dei rischi, ha una capacità unica di controllarsi sul campo, un body language molto misurato, è difficile capire cosa gli passa per la testa.
La vicenda del doping vi ha creato qualche dubbio?
Conoscendone l’integrità, la disciplina di ferro, la mentalità, neanche per un attimo. Siamo sempre stati sicuri che si fosse trattato di un incidente. E al di là dei report medici - che hanno confermato che la quantità della sostanza era talmente microscopica da non apportare nulla - già prima eravamo più che convinti dell’infondatezza della cosa.
Quali sono i valori in comune tra Sinner e Lavazza? Come è stato vederne la crescita, in questi anni?
La determinazione nell’arrivare all’obiettivo, lo spirito di sacrificio, il fare leva sulle proprie capacità, inclusa la capacità di soffrire. Anche nel business puoi cadere ma poi devi avere la forza per rialzarti, non devi vincere tutti i punti ma vincere i punti giusti; capire che hai dei limiti e che quel che conta è far meglio di chi sta di fronte.
Perché Lavazza ha scelto proprio il tennis? Come è nato questo legame?
E’ nato per caso, nel 2011 ci ha contattato Img (la società americana che si occupa di marketing sportivo, ndr) per chiederci se avessimo interesse a venire Wimbledon. Allora ero direttore marketing dell’azienda e accettai. Non ci ero mai stato, ebbi l’occasione di vedere il contesto in cui giocavano i più grandi del mondo, da Nadal a Federer a Djokovic. Rimasi colpito dal luogo, che avevo sempre visto in tv ammirando la sacralità del centrale. Capii che c’era una potenzialità per il caffè, considerando il numero di persone che venivano tutti giorni. Era un prodotto che mancava, c’era ma senza una reale identità. Mi sembrò un posto straordinario per prendere il caffè, un magnifico enorme coffee shop declinato in moltissimi modi: per i giocatori, per il pubblico, per i soci del circolo, per la stampa, per la queue, con la possibilità di personalizzare l’offerta e le caffetterie. Il caffè e il tennis stanno benissimo insieme. Abbiamo cominciato a capire che era uno strumento per creare una rete di relazioni, per offrire un’esperienza particolare ai nostri stakeholders. Tanto che dopo Wimbledon, nel 2013 abbiamo cominciato a sponsorizzare Roland Garros, poi siamo entrati negli Us Open, poi negli Australian Open dove siamo stati alcuni anni…con il Covid abbiamo dovuto fare delle scelte e abbiamo lasciato Melbourne. In questo momento per noi la Cina è un mercato importante.
E l’Italia?
Siamo alle Finals. Torino è la nostra città, era importante spendersi per portare lì il torneo – non era garantito - e sostenere il progetto quando la città ha presentato la propria candidatura: noi eravamo un’azienda molto accreditata nel tennis.
Continuerete anche a Milano?
Non lo sappiamo ancora, è da decidere, intanto abbiamo ancora alcuni anni a Torino. Le Finals sono un prodotto molto buono, per l’audience. Sono ben organizzate, il livello di qualità è altissimo, il pubblico è entusiasta, c’è molta tecnologia e molto show. E’ l’unico torneo indoor che facciamo.
C’è un effettivo riscontro, che sia empiricamente misurabile, da una sponsorizzazione? Qual è la vostra esperienza?
Con il tennis abbiamo costruito un percorso di grandissima visibilità per l’azienda, siamo riusciti a far assaggiare il nostro prodotto a milioni di persone. E’ un investimento che ha restituito tantissimo, e continueremo a farlo. Il tennis ci ha dato molto anche sul fronte della comunicazione, penso agli spunti per fare attività di engagement sui social media. E’ un veicolo di promozione e di contatti a tutti i livelli. E poi è uno sport che è cresciuto tantissimo, è diventato un fenomeno globale, l’audience è larga, è uno sport seguito da persone di tutti i tipi: più giovani, più mature, non ci sono differenze di genere. Anche il pubblico funziona: niente fenomeni deteriori, si fa il tifo, si applaude, nulla di più.
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