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Lo scudetto del Napoli di Conte non è stato il trionfo del talento, ma di disciplina e trasformazione

Lo scudetto del Napoli di Conte non è stato il trionfo del talento, ma di disciplina e trasformazione

Foto LaPresse

Quella della squadra campione d'Italia è stata un’ascesi collettiva, un miracolo umano e tattico nato nel fango e culminato nella rovesciata di McTominay: non un’impresa effimera, ma un nuovo inizio

Sento il fischio insistito, ripetuto, quasi una nenia, lo stesso che si ripete ogni domenica, tra le tre e le cinque del pomeriggio, da sempre. Puntualissimo, acuto, ineluttabile. Non è quello dell'arbitro. È quello dello "spasso": il carretto delle "nocelle", dei pistacchi, delle mandorle tostate, che si aggira nel quartiere della Stella e della Sanità quando scocca l'ora più desolata e abulica di Napoli: quella che viene dopo il pranzo domenicale. Qui cade l'abbattimento completo e una profondissima malinconia che resiste, ultima, alle smanie operose delle città d'arte, delle gite fuori porta, dei festival e delle rassegne, delle passeggiate di coppia, delle mostre e dei musei aperti. Qui, Napoli può finalmente impigrirsi, in questa sorta di fine estate dello spirito. Solo ora, ora che lo spasso annuncia l'inizio del vuoto e la fine della festa, posso fermarmi a riflettere su quello che è successo. Il quarto scudetto: “Uanema do priatorio”, “anime del purgatorio”, viene da esclamare.

Avrei dovuto consegnare questo "pezzo" allo scadere dei novanta minuti col Cagliari, ma non ero in tribuna stampa e nemmeno sarei stato in grado di redigere una cronaca da lì, figuriamoci dalla curva, figuriamoci da Piazza del Plebiscito. Men che meno avrei potuto fare l'unica cosa veramente sensata: scrivere l'articolo sullo scudetto, prima dello scudetto. Questa strategia ovvia sarebbe stata la più sconsiderata. Direi inammissibile, quale affronto agli déi della fortuna! Fosse successo qualcosa non me lo sarei mai perdonato, non me lo avrebbero mai perdonato gli déi, gli amici. Non sto scherzando, la scaramanzia è una cosa seria e quest'anno è stata il vero segreto dello scudetto di cui ora vi racconto la storia apotropaica.

Per spiegare il significato del termine “scaramanzia” la Treccani non ricorre, come di solito accade, ad alcuna etimologia; poco chiara quella che risalirebbe a “chiromanzia”, ma cita Heidegger: nella pronuncia di formule rituali le cose vengono rese presenti; chiamare è evocare ed è per questo che alcune pratiche scaramantiche lavorano con la ripetizione di parole, invocando, convocando le cose ad accadere; altre, all’inverso, con l'omissione, con l'aggiramento, tacendo ma con lo stesso intento: tacere di qualcosa affinché accada. In questa ultima disciplina i napoletani si sono specializzati contribuendo in modo decisivo al quarto scudetto, il più sudato ma anche il più fortunoso. Di una fortuna però, tutta propiziata, tutta, anch’essa, in fondo, faticata.

“Non tiriamo fuori bandiere con numeri a caso”, aveva detto Conte alla vigilia del match col Cagliari chiedendo un particolare tipo di sostegno che con quel riferimento al “caso” tradiva il recondito senso della sua richiesta: scongiurate il caso avverso, ovvero: abbiate contegno! Detto, fatto. Ma Napoli aveva dimostrato quel contegno sin dai mesi e dalle settimane precedenti, e ha continuato a farlo fino a pochi minuti prima della partita dando così prova di tutto il suo senso civico. Civismo scaramantico, certo, ma pur sempre civismo. A differenza dello scudetto attesissimo e “trezziato” del 2023, questa volta Napoli non aspettava, non aveva neppure il coraggio di sperare, ma guardava. Silenziosa, attenta, laboriosa, paziente. Non uno striscione, non una insegna sguaiata o bandiere e festoni appesi per la città. Tutto quello che ancora addobbava i vicoli era la rovina della festa di due anni prima, quando la città si era potuta addestrare in mesi di preparativi, certa e sicura del suo trionfo. Non così quest’anno. Troppi gli ostacoli con un margine di errore che pareva nullo, troppo alta, dunque, la possibilità di fallire. C’era poi come un pudore nei confronti di questa squadra, troppo pragmatica e sempre sull’orlo della disfatta per poter dare adito a proclami. Quel pudore obbligava a non essere sfrontati, a ostentare cautela, umiltà, perfino sfiducia. Perché era proprio nella parola “scudetto” che si annidava la possibilità della sua revoca. Nei bar, tra amici, allo stadio, si rincorreva un mantra, lo si è ripetuto fino all’avvento di Santo Pedro (autore della doppietta che alla penultima di campionato ha inchiodato l’Inter al pareggio), e il mantra recitava: “certo, l’Inter ha davvero ottime possibilità di vincere quest’anno”. La parola “scudetto” non andava neppure pronunciata.

Solo dopo lo sporchissimo pareggio di Parma, avendo mantenuto un punto di vantaggio e con l’obbligo di vittoria contro il Cagliari, si è avuto il coraggio di alzare gli occhi e agguantare il cielo. Prima di quel momento, il cielo, per citare Giambattista Vico, era stato solo “avvertito”. Sì, perché per il grande filosofo napoletano, la religione, quindi la civiltà, inizia quando i primi uomini – i bestioni – interpretano, nel tempo immemore delle origini, il tuono e il fulmine come espressione della volontà di un altro, entità superiore capace di osservarli e atterrirli. Solo allora il bestione si incivilisce: quando avverte una forza che lo scruta. Quello sguardo che dall’alto cade sui mortali è lo stesso temuto dai greci che così definivano l’invidia divina: una forza in grado di abbattersi su chi avesse osato sfidarli. Guai a incorrere in essa, male sopraggiunge a chi eccita l’invidia dei celesti compiendo atto di hybris: volere troppo, volere oltre il dovuto. Da questo antichissimo malocchio divino che trapassa nel mondo degli uomini regolando l’agonismo mondano, deriva, forse, la diffusa scaramanzia napoletana. Che è il mantenimento di un regime di contesa tra i regni del visibile e dell’invisibile. Per questo, timorata, Napoli non parlava, a stento alludeva, neppure sperava. Quale impensabile fatica non credere. Ma quella incredulità, quel disincanto, celava un lavoro, il lavoro che ha propiziato il più inatteso degli scudetti. Il più fortunato non perché “immeritato”, al contrario: perché non ostacolato dalla presunzione e dall’arroganza. Non poteva essere altrimenti dopo il vergognoso decimo posto dell’anno precedente. Non poteva essere altrimenti dopo una campagna acquisti ancora una volta tardiva, non poteva essere altrimenti dopo la cessione prima di Osimhen, e poi, a gennaio, di Kvaratskhelia. Conte lo sapeva e ha battuto su questo tasto, costruendo il sodalizio con Napoli su questo punto: per fare l’impensabile bisogna frenare l’immaginazione, tenere la testa bassa. Stare e patire lo stato di cristi come stato permanente. La norma è agonia.

“Amma faticà” aveva dichiarato programmaticamente alla sua presentazione, rivendicando la necessità del lavoro come mezzo per oltrepassare i limiti di una squadra che esordiva con valori oggettivi inferiori rispetto a quelli delle altre. E Napoli si affidava al suo condottiero e “masto”, assumendo quello spirito di sacrificio, l’idea, cioè, che la vittoria si conquista non con la bellezza ma con lo sforzo, lentamente. Il Napoli di Conte è stato questo: una squadra difficile, che “rompe le scatole” come affermò a proposito della fisionomia che avrebbe dovuto avere il suo Napoli, una squadra che avrebbe costruito – lo ha sempre ricordato – sulle macerie del decimo posto, non sugli allori dello scudetto di Spalletti. Non più inarrestabile, non più dilagante ma, molto più modestamente e cinicamente, difficile e nuova, completamente altra e interamente sua. Non a caso il Napoli chiude il campionato con il minor numero di reti subite, non solo per merito della difesa ma del contributo di tutta la squadra che in tal modo si offre al sistema nel nome di Antonio. Se nulla è più bello della vittoria, secondo quanto esige la dottrina agonistica di Conte, essa si ottiene solo attraverso la Bildung, come direbbe Hegel. Ed è questo il punto in cui si consegnano l’uno all’altro, Conte e Napoli: nella formazione di una mentalità comune. Inaspettatamente Napoli scopre un’altra bellezza: una bellezza che non s’atteggia a grazia, che rifugge l’effimero e il grandioso, e si manifesta invece nella trama opaca della minuzia, nell'ossatura nodosa del lavoro quotidiano, nella pedagogia sorda e inflessibile dell’impegno. Non è un’estetica dell’effetto, ma della sostanza. Questo quarto scudetto del Napoli, sorto non per palese dominio ma per vocazione alla polvere, reca così impresso il marchio della Bildung hegeliana: quella formazione che non orna, ma scolpisce; che non accompagna, ma trasforma. “Amma faticà”, è in questa espressione che si ritrova l’idea essenziale perché non si trattava solo di un programma di lavoro: era una dichiarazione ontologica, una presa di posizione sull’essere dell’uomo e della squadra. I talenti naturali non bastano – e invero ne aveva pochi - ciò che si potrà ottenere verrà dalla ostilità dichiarata all’immediatezza dei valori tecnici, perché tutto è esercizio dello spirito, o allenamento, contro il languore della natura.

Secondo Hegel, l’uomo non è ciò che è: egli è ciò che diviene mediante il lavoro, ossia mediante la rottura — e questa rottura con la naturalità, questa rinuncia a essere come si è, per diventare come si deve essere, è la forma più alta di libertà. Conte ha preso un gruppo di uomini, alcuni talentuosi – il più geniale dei quali ha dovuto perdere a metà stagione - altri che erano considerati finiti, altri acerbi o poco conosciuti, e li ha costretti alla metamorfosi per addestramento, per logoramento, per tenacia. Ha fatto della squadra un’opera dello spirito radicando nel decimo posto dell’anno precedente il segreto della loro forza, ossia nella libertà dalle coppe europee. Tolto Kvara – la cui imperdonabile cessione rende la vittoria ancora più eroica - nessuno poteva nascondersi dietro il dono ricevuto dalla nascita e tutti sono stati obbligati a passare per un atto di trasformazione: da Olivera centrale, a Juan Jesus rinato, da Spinazzola esterno alto ad Anguissa maratoneta. Questo Napoli è il prodotto non del talento dato, ma dell’abnegazione continua, della tecnica che si fa etica, dell’allenamento che si fa destino. Il calcio, così inteso, non è più gioco: è ascesi. Questo è Conte, il suo martirio, ma anche il nostro che a lui abbiamo sacrificato l’allegria. E quanto più abissale risulta, a confronto, la distanza tra questa vittoria e la precedente, quella sfrontata, spavalda, del Napoli di Luciano Spalletti, che solo due anni prima aveva esibito il calcio più bello e potente d’Europa. Quella vittoria portò a una gloria che era già implicita nella forma della squadra, una cavalcata – come non ha mancato di sottolineare Conte per amplificare i suoi meriti - che appariva già scritta nei cieli come nei cuori molto prima che la matematica la sancisse. Il destino di chi si sente ed è per diritto superiore ci accompagnava, ma questa volta no. Se nel 2023 già si respirava la vittoria in inverno, tanto era limpido il cielo della classifica, tanto era voluttuosa la trama del gioco, quest’anno gli occhi non hanno concretamente assunto quella vetta se non dopo la rovesciata di McTominay di venerdì sera.

Il Napoli di Antonio Conte non ha mai avuto nulla della leggerezza spallettiana, è, al contrario, un corpo che ha dovuto riedificarsi frammento per frammento, pezzo per pezzo, osso per osso, in mezzo alla diffidenza, al malumore, al trauma di un’aspettativa tradita come quella dell’anno precedente. Non si è levato in volo, questo Napoli: è sprofondato e ha scavato. A partire da quella prima giornata di campionato a Verona, dove la sconfitta per 3-0 faceva pronunciare a Conte queste parole: “mi vergogno”. La vittoria è nata lì: nel pudore. E i napoletani hanno conosciuto il fango come compito, trattenendo il fiato come le bandiere fino alla partita finale, soffrendo per ogni punto guadagnato. Questo impasto di ombra e sudore ha dato luogo a un’altra bellezza, non già più sommessa o sobria, al contrario, perfino più abbagliante, ma improvvisa.

È qui che il lavoro, nel senso più hegeliano del termine, si manifesta nella sua purezza tragica: non come mezzo per arrivare a un fine, ma come fine stesso, come costruzione della forma, della coscienza, della squadra. La paura — che nel calcio spesso paralizza — in questo caso è divenuta vincolo comunitario: prudenza. Conte non ha scacciato la paura, l’ha addestrata, l’ha resa parte del processo educativo fatto di tensione, di precarietà, d’incompiutezza. Ha protetto la squadra, affidata a Oriali, assumendosi responsabilità, attaccando avversarie, arbitri, giornalisti, i napoletani stessi. Sempre in guerra, sempre in stato di agitazione: questo è Conte.

La sua vittoria non ha avuto un pubblico entusiasta a sostenerla nei primi passi: ha camminato nel sospetto, nel confronto continuo col fantasma dell’anno d’oro, sotto gli sguardi sempre meno storti della critica e gli eccessi che in fine si sono allineati della tifoseria. Ha dovuto apprendere il silenzio, il rigore, la coerenza a fronte del disamore. Non ha ricevuto l’investitura dell’epos da subito, lo ha guadagnato. Che bellezza è questa? Non dell’irresistibile, ma di ciò che resiste, che trattiene. Vittoria della fatica, ancora. Sembrerebbe questo volontarismo contiano opposto al fatalismo napoletano: ma c’è un riposto accordo tra queste dimensioni. Ed è questo il segreto dello scudetto, perché è stato necessario lo stesso sforzo e la stessa volontà per contrastare le forze dell’invidia, per mantenere quel contegno dell’entusiasmo, per restare concentrati sulla singola partita. E non vi era, pure, un piano provvidenziale ad attendere l’impresa di Lukaku e soci se si pensa al gol di Orsolini allo scadere di Bologna-Inter o alla doppietta di Pedro?

Antonio Conte è il calcio come battaglia, come fronte, come campo di forze diseguali da raddrizzare con la volontà. Non esiste, nella sua visione, la quiete, né la tregua, né tanto meno il compiacimento. L’allenamento non è preparazione ma addestramento in stato di emergenza permanente – da superare con le vene tese e lo sguardo cieco di chi vede solo la meta più prossima, non la gloria a venire. In lui rivive una forma d’agonismo che si fa più che ossessione: si fa stile di pensiero, anzi, metafisica. Vincere non è un obiettivo, ma un obbligo morale, come se la vita potesse compiersi solo attraverso la consumazione delle forze e della voce. “Siamo in emergenza da gennaio, volevate pure non soffrire?”, ha chiesto — o meglio, tuonato — alla vigilia della sfida col Cagliari. Una domanda che è un manifesto: nel calcio di Conte, l’idea stessa di vittoria scaturisce dalla prostrazione, dal dolore, dallo spasmo.

Lo spasmo, sì: quella contrazione muscolare estrema, disperata, che si oppone al cedimento, che si ribella al collasso. È la cifra fisiologica, quasi mistica, di questo Napoli. Una squadra che pur è riuscita a dominare nelle partite chiave: a Bergamo ad esempio. Anche in quel caso però ha vinto serrando i denti, trattenendo il respiro, stringendo la linea tra le scapole come chi si prepara all'urto. E Conte, regista della contrazione, ha mantenuto altissima la tensione interna proprio coltivando il paradosso della crisi perenne: ogni turno un’ultima spiaggia, ogni errore un abisso, ogni giorno un giudizio, la partita più importante? La prossima.

Non poteva che essere idiosincratico, questo spirito, nel contesto di Napoli: città che vive e giudica come ama e si dispera, tutta di pancia e di intelletto frenetico, rapida ad accendere la festa e rapida a spegnerla con un sibilo, come dice Benjamin. La tifoseria — così sensibile all’estro, così orgogliosa del bello, così incline al registro lirico — ha accolto con entusiasmo il timoniere, il maestro e il padre, lei fanciulla e infantile, ha sempre mal visto, almeno all’inizio, l’uomo dal piglio gelido e dalla parola greve, che pareva non voler concedere nulla al sogno. E a pesare come piombo sulla fiducia c’era quell'origine juventina, non redimibile, quasi sacrilega, che Conte non ha mai rinnegato: Conte, artefice del risorgimento bianconero, veniva da juventino, non solo da uomo del sud, a farsi corpo estraneo, duro, militare, nel ventre molle e vulcanico di Napoli e – occorre dirlo senza mistificazioni – ha vinto da e in quanto juventino.

Ma proprio in questa tensione, in questa contraddizione identitaria, si è forse compiuto il miracolo più profondo: Napoli ha finito per accettare, e persino amare, il proprio disicantatore. Ha riconosciuto, nella serietà e nell’umiltà, un atto d’amore rovesciato. E lui, Conte, meridionalissimo per sangue e per furore ha fatto della città la sua trincea, il suo cimento più grande. Ha protetto la squadra esponendosi come parafulmine, attirando su di sé ogni polemica, ogni occhiata, ogni scetticismo, con quella brutalità verbale che è anche, sempre, scudo ai giocatori. E accanto a lui, come una figura manzoniana, l’inflessibile silenzio operativo di Lele Oriali: insieme hanno oscurato la società, reso irrilevante ogni incontinenza dirigenziale, ricondotto l’intero progetto alla sola dialettica tra campo e fatica.

Nessuna consolazione, nessuna coppa, nessun canto prima del tempo. Solo marcia. Solo trincea. Solo addestramento. E la vittoria, quando è arrivata, non è esplosa: si è aperta come una crepa, una fenditura finalmente luminosa nel tufo friabile. Un terremoto che al gol di Mac hanno registrato anche i sismografi. Risarcimento per tutto il non-sperare coltivato come metodo. Perché Conte non ha mai promesso felicità. Ha offerto solo la possibilità di restare in piedi, di non cedere all’urto, di contrarsi fino all’ultimo respiro — e vincere così.

C'è stato un momento — uno solo, eterno — in cui l'intera parabola del Napoli di Conte ha preso forma plastica, ha assunto figura compiuta, si è fatta scultura del tempo e del destino: ed è stato quando, al minuto quarantadue della notte definitiva, Scott McTominay, il più inatteso dei protagonisti, si è librato nell’aria con la maestosa nobiltà del fuoriclasse, e ha rovesciato in rete il pallone che apriva la via allo scudetto. Non è stato solo un gesto tecnico, non è stato solo un gol: è stato un grido in forma di gesto. Era tutto lì: il controllo ferreo del corpo, la fiducia cieca nella dinamica dell’istante, il coraggio di voltare le spalle alla porta per affidarsi all’aria e al rischio, alla torsione e alla gravità. L’istante perfetto, preso e fatto eterno.

“McFratm”, lo chiamiamo. Fratello, ma anche figlio adottivo, come sempre accade ai figli più amati da Napoli, tutti forestieri, tutti più lucidi e benevoli dei napoletani con Napoli: da Virgilio a Maradona, da Leopardi a Benjamin. Questo guaglione d'oltremanica accolto come carne della carne da una città che, pure, sembrava agli antipodi della sua geografia e del suo temperamento. E invece, come spesso accade sotto il Vesuvio, l’inverosimile è diventato ovvio, questo ragazzo scozzese è ormai un’icona partenopea, capace di aggrumare insieme un affetto e un’ammirazione infinita. Per la generosità del suo lavoro a centrocampo, con i suoi gol e gli assist la Lega ha potuto soltanto ratificare ciò che il campo aveva già proclamato: MVP della Serie A, per virtù di numeri, di cuore e di gamba. Mai si era forse vista una tale armonia tra tecnica, intelligenza e capacità atletica.

C’è qualcosa di provvidenziale e poetico, nell’aver trovato proprio in uno scozzese il protagonista di questa epopea vulcanica. Giacché un altro scozzese — come mi ricorda un caro amico geologo— aveva lasciato un’impronta duratura nella storia del territorio partenopeo: William Hamilton, il diplomatico e vulcanologo che per primo scrisse del Vesuvio come entità vivente, che seppe leggere la geologia come se fosse poesia, e che fece del paesaggio napoletano un oggetto di scienza e di meraviglia i cui misteri per primo riuscì a codificare. Anche lui, come McTominay, veniva da una terra di bruma e di brughiere, e anche lui seppe farsi interprete e cantore della violenza fertile di cui è fatta la materia di napoli.

Così McFratm è divenuto una presenza amichevole, solare, benevola: sempre pronto a colpire nell’istante decisivo, entusiasta nelle dichiarazioni ma mai ridondante, eppure capace di ribaltare la topografia del campo e del destino con un solo gesto. Mai lezioso, non ha cercato l’applauso, e si è guadagnato l'amore assoluto; non ha chiesto la scena, ma gli è toccata. Come se in lui Conte avesse trovato il regalo tanto a lungo meditato l’estate scorsa.

Ma la rovesciata di McFratm, epifania acrobatica impensabile per la tensione che si respirava al Maradona, è solo il picco visibile d’un continente sommerso, il grido che si stacca da una coralità compatta. Perché il Napoli di Conte non è stato mai, neppure per un istante, la squadra d’un solo uomo ma un crogiolo. Ogni reparto ha offerto al culto della contesa i suoi martiri e i suoi simboli.

In difesa, l’impianto è stato costruito su una dialettica tra rivelazione e resurrezione. Alessandro Buongiorno, nome da battesimo e promessa da mantenere, è divenuto certezza: non più solo un giovane dal piede educato e dalla postura elegante, ma un centrale completo, feroce nei duelli, lucido nelle uscite, sobrio come si conviene a chi ha compreso che la bellezza della difesa è fatta di senso della posizione. Accanto a lui la certezza di Rrahmani, e al suo posto quando è dovuto mancare per infortunio il miracolo vivente: Juan Jesus, nome quasi beffardo, che pareva da tempo destinato alla panchina, è risorto a dispetto di ogni critica. Sembrava un calciatore finito, e invece — sotto l’assillo di Conte — è diventato colonna portante, uomo che non chiede nulla e dà tutto, veterano della croce e del compasso. E poi Mathías Olivera, uruguaiano di spirito e d’origine, terzino per vocazione ma divenuto centrale per necessità: esempio limpido del principio contiano della trasfigurazione. Non ha reclamato ruolo né gloria: ha accettato il compito, e l’ha eseguito con dignità guerriera.

A centrocampo, il fulcro del sistema tattico, laboratorio dell’intensità, si è consumata la metamorfosi più radicale. Frank Anguissa, che veniva celebrato in passato per le sue cavalcate episodiche e il talento crudo, è stato ripulito dell’indolenza, scolpito a colpi di ripetizione, e riconsegnato al campo con polmoni d’acciaio. Non è più solo un mediano elegantissimo: è un argine, una linea, memoria muscolare del gioco capace di inserimenti, di anticipo, di corsa. Accanto a lui le geometrie imperscrutabili di Lobotka, già nomoteta sotto Spalletti, ma che in Conte ha trovato una nuova grammatica, più severa, meno lirica ma più necessaria. Quando il piccolo slovacco è venuto meno, è emersa la figura del giovanissimo Gilmour.

E poi, quei nomi che in altri contesti restano pie' di pagina, ma che qui — nel Napoli del dettaglio assoluto — sono epigrafi. Philip Billing, colosso danese dal passo incerto, ha scritto il suo nome nella 27ª giornata: Napoli–Inter, partita strozzata nella tensione, decisa da un suo gol che è stato più di un episodio — è stato una cesura. Raspadori, che pareva destinato a un ruolo marginale, ha dato un contributo decisivo in termini di gol pesantissimi, su tutti quello contro il Venezia: non l’ha cercato, lo ha atteso, lo ha onorato. Sono questi i gol che non restano nella memoria universale ma che fanno uno scudetto.

In attacco, il baricentro psicologico e tattico si è raccolto tutto intorno a Romelu Lukaku, uomo-totem contiano, corpo che si è fatto progetto e destino. Conte lo ha voluto, lo ha difeso, lo ha ridisegnato come terminale ma anche come raccordo, come colonna vertebrale di una squadra spesso frantumata. Lukaku non è stato solo realizzatore: è stato rifugio, supporto, parete e muro, la punta che abbassa il baricentro e solleva i compagni, che smista e pressa. Ha accettato il peso come un’investitura e l’ha portato: è stato Conte in campo, e proprio per questo non è mai sembrato solo un attaccante. Uomo squadra universale che ha suggellato la stagione perfetta con il gol magistrale che cuce il tricolore.

Infine, ma non ultimo, Giovanni Di Lorenzo, il capitano silenzioso, l’uomo del gesto minimo e della responsabilità massima. Il suo gol alla seconda giornata contro il Bologna ha avuto qualcosa di inaugurale, di profetico. Fu come un colpo di scalpello sul marmo ancora informe della stagione: il primo segno. E non ha mai smesso, Di Lorenzo, di colpire quel marmo, di levigarlo, anche quando tutto sembrava destinato al fallimento.

Vorrei però tornare sull’elemento più misterioso, più delicato, più profondamente umano di questo quarto scudetto del Napoli che non è solo da cercare nel campo, bensì nel modo in cui la città ha accolto l’evento. Con pudore, come ho detto. Con quel riserbo che pareva quasi incredulo, quasi intimidito. Nessuna fanfara prematura, nessuno striscione affrettato, nessun carro allegorico lanciato in anticipo: Napoli, che sa cos’è la gioia quando esplode, ha imparato questa volta l’etica del silenzio operoso, ha fatto propria l’austerità del suo condottiero, traducendola nel proprio linguaggio. Ha assunto, insomma, la grammatica di Conte, ma l’ha coniugata secondo la propria declinazione affettiva e magica.

L’abnegazione del sudore si è trasfigurata in dedizione scaramantica. Il napoletano ha ostentato un distacco apparente, una finta sfiducia che era in realtà amore protettivo, pudico, devoto. Perché a Napoli la speranza non si proclama, si nasconde. Si dissimula per non svegliare le forze oscure, per non sollecitare la malizia del destino, per non irritare l’invidia degli déi. Il tifoso ha vissuto questi mesi in uno stato sospeso, come in apnea, trattenendo il fiato come chi teme che basti un soffio, un grido in più, per rovinare tutto. Non avrei potuto scrivere di tutto questo prima della partita col Cagliari: pericoloso e, in fondo, impensabile vincere. Eravamo un popolo intero intento a non sperare troppo forte. Un popolo che conosce il dolore, e che per questo tratta la gioia come una reliquia.

E qui si è prodotto un miracolo simbolico, un equilibrio delicatissimo tra due concezioni del mondo che in altri luoghi si escluderebbero e che invece a Napoli coesistono, si riconoscono, si completano, per una sorta di osmosi degli opposti. Da un lato, l’etica della volontà, quella di Conte: la fatica come forma, il lavoro come destino, la tensione come condizione permanente dell’essere. Dall’altro, la visione provvidenziale del mondo, secondo cui il lavoro può preparare, può propiziare, ma mai garantire l’esito: perché tutto è inscritto in eterne potenze. Non in opposizione, ma fianco a fianco: l’abnegazione che suscita rispetto e la scaramanzia che lo protegge; il corpo che lotta e l’anima che trattiene il respiro.

Questa composizione, questa saldatura fra il sacro del fare e quello dell’attendere, è l’anima vera dello scudetto. È lo sforzo quotidiano della squadra che ha guadagnato l’amore silenzioso del popolo, e il silenzio del popolo che ha lasciato spazio all’impresa, senza invaderla con la retorica. Persino la fortuna, così spesso evocata come entità capricciosa, è stata convocata con rispetto, come una presenza da non inquietare: e quando è venuta, quando ha posato il suo sguardo benevolo, Napoli ha saputo riconoscerla e celebrarla secondo il proprio canone. Il gol di Orsolini allo scadere e soprattutto i gol di Pedro, il "santo Pedro", inneggiato in cori che mescolano devozione e scherzo, sono apparsi come segni. Segni che la città ha letto come risposte, come doni di una potenza invocata con la sola arma che le è concessa: la discrezione della pietà popolare.

Chi si aspettava una Napoli sguaiata, ha sbagliato. Attenta al mistero di Sant’Andonio, il popolo non ha voluto sapere troppo, per non sciupare la grazia. Fede in Conte. La stessa che ha chiesto, che ha avuto. E questa è la più alta forma di rispetto: tacere davanti alla possibilità del miracolo. Miracolo tutto umano, nervoso, voluto eppure innaturale.

A raccontare il vero volto di questa vittoria, non basterebbero le bandiere, le fiaccolate, i cori o le interviste. Perché l’essenza più profonda, più remota e più duratura di questo scudetto sta tutta nella figura di un animale umile, dimesso, testardo: l’asino, il ciuccio, troppo spesso ridotto a caricatura folcloristica, ma che è, in realtà, il vero totem simbolico di Napoli. Non il cavallo fiero e impaziente che campeggiava sullo stemma originario della squadra nel 1926, quando il club si affacciava alla storia con pretese da nobiltà sportiva — ma l’asino, che il popolo volle al suo posto, con ironia e verità, perché quella squadra non vinceva, arrancava, resisteva più che brillare. Era una forma d’autoironia, sì, ma anche una profezia simbolica.

Perché l’asino, a Napoli, non è lo sciocco ma il tenace, non è il pavido ma il resistente, non è il vinto ma il capace di portare tutto il peso, anche quello della sconfitta. E così, proprio lui, il ciuccio deriso, è diventato poesia. È l’animale che sale a testa bassa le mulattiere della Storia, che non cerca l’applauso ma la salita, che non corre per la gloria ma cammina per necessità. E l’anno scorso, quando tutto pareva svanito, quando il Napoli è finito decimo, schiacciato dal dopo-festa, l’asino era lì, ancora, a sopportare. A tirare il carro per la “scesa”.

Quest’anno, invece, l’asino si è fatto eroe. Senza cambiare passo, senza cambiare pelle. Ha vinto rimanendo asino, cioè rimanendo fedele alla fatica, alla sobrietà, alla costanza. Nessuna trasfigurazione in cavallo di razza: ha vinto con la stessa andatura lenta e ferma, col carico in spalla, con le gambe piegate e il cuore alto. Ha vinto come si vincono le cose serie, con pazienza, con attenzione, con una forma tutta napoletana di decoro: quella che rifiuta lo sfarzo e sceglie la dignità silenziosa del lavoro. E in questo, Napoli ha trovato una nuova immagine di sé, non gridata, non estrosa, ma profonda, autentica, radicata.

Quando l’anno prossimo celebreremo il centenario della squadra, forse non sarà il cavallo il simbolo da rievocare. Forse, dovremo guardare al deriso e all’irridente, all’instancabile portatore di una gloria tenera, simbolo misconosciuto e dimenticato di una città estenuata, stanca, maltrattata. Perché, in fondo, questo scudetto non è stato un galoppo, ma una risalita in marcia.

Lì, all’arrivo pareva di arrancare, di venire meno, lo abbiamo temuto tutti. Genoa, Parma, quanta paura. Era necessaria una ultima prova: uno scatto improvviso, un solo atto di forza prepotente. Giunti al termine di una stagione come questa, con la pressione di una intera civiltà addosso quei due meravigliosi gol contro il Cagliari hanno testimoniato la recondita provvidenza della bellezza, che appare quando deve.

E allora, quando il pallone ha varcato la linea, quando la rete si è gonfiata sotto il cielo carico di attese taciute, la città è esplosa — non in un’esultanza qualunque, ma in un boato che portava il peso di un anno intero. Non si era felici ma liberi: come per il rilascio di un’energia sismica, per troppo tempo accumulata. Quasi ci ha colti di sorpresa l’idea di poter davvero vincere. Per questo tutto ha tremato: che cosa abbiamo fatto? Ripetono i giocatori a fine partite, e noi con loro.

La rovesciata di Mac, la cavalcata di Rom, il fischio finale, le piazze e lo stadio, e tutta la città, unita come da una filo in puri brevissimi attimi di gioia, hanno dato l’impressione, ancora una volta dopo il 2023, e forse con più forza, che fossimo davvero una sola città e un solo popolo. Che cosa rara e spaventosa da avvertire: è forse questa la “social catena” di cui parla Leopardi nella Ginestra? Questo sentirsi indistruttibili nell’attimo che presto si annienta, quello di Nike.

Ma come spesso accade a Napoli, dove proprio perché tutto è esposto e inscenato, l’essenziale è nascosto. L’Italia in queste ore solleva lo sguardo e il giudizio sulla festa di Napoli e soddisfatta, forse, conta gli incidenti, divertita, biasima e ammonisce sfogliando i video e immagini di tumulto, vede il milione di persone in strada ma non riconosce il senso questo spettacolo di bagliori che non è il divertimento, e non è nemmeno il senso di appartenenza ad una squadra o una città, ma quello essere allo stesso tempo in quanto molti, uno. Ed è questa unità a scatenare il pensiero inaudito: possiamo ancora.

Le maglie indossate dai calciatori alla fine della partita contro il Cagliari che recano la scritta “again”, di nuovo, sembrano esprimere il significato inatteso di questa vittoria. Verità non ovvia, che però reclama asilo nella consapevolezza dei napoletani, e, si spera della società: che Napoli non è più una favola, e la sua vittoria non è un imprevisto o una eccezione, ma una storia che si ripete, che, per questo è chiamata e ripetersi ancora, a insistere, a esserci. Napoli scopre, nel momento esatto della sua gioia, di essere grande, la più titolata del centro-sud.

Nella vibrazione registrata dai sismografi al gol di McTominay, che hanno fatto muovere la terra, si testimonia il passaggio dalla possibilità – indeterminata - al reale, dal sogno al diritto, dalla favola all’istituzione. Napoli, con questo quarto scudetto, non si è più raccontata: si è riconosciuta. Non più l’eccezione romantica, bellezza estemporanea o intermezzo lirico ma realtà chiamata a mantenere la promessa di vertice che la portata della sua tifoseria le assegna. Nello scudetto del 2023 vi era, in fondo, una profonda malinconia, una tristezza del suo essere già passato proprio perché lo si era visto arrivare tanto da lontano che quando è accaduto pareva già trascorso. Ma questa vittoria è diversa: nessuna nostalgia spallettiana, nessuna perfezione raggiunta e perduta. Questo scudetto squarcia e apre, più che compiere. Un insperato sguardo rivolto al futuro sorprende Napoli campione ed è forse la cifra distintiva dello scudetto ripetuto, che la dirigenza non potrà, questa volta, assumere come un premio, bensì come un compito: di essere finalmente rivolta alla propria novità, al proprio poter essere nuovamente prima. Nea-polis.

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