Allo Strega dilaga la narrativa senza immaginazione: è il Premio della letteratura di seconda mano

La finale della 79esima edizione
Molti dei libri della prima selezione erano non-fiction: autobiografie, reportage, inchieste. Trionfa meritatamente Bajani con L’Anniversario, finalista con Nori, Rasy, Terranova e Ruol

Ieri sera al Ninfeo del Premio Strega un amico, sceneggiatore, ha così commentato la cinquina: “Bisognerebbe ripassare la storia della letteratura alla luce dell’attuale, pervasiva moda dell’autofiction….Emma Bovary si scriverebbe da sola il suo romanzo, senza Flaubert!”. Sui 12 titoli della prima selezione, solo una decina appartengono alla variegata area della non-fiction: biografie, ritratti, autobiografie, reportage, inchieste famigliari e appunto autofiction. L’impressione è quella di una narrativa un po’ parassitaria, fatta sempre a ridosso di qualcos’altro, insomma di seconda mano (una second hand literature?).
Sapete, il dispetto maggiore che ci fanno gli dei è esaudire i nostri sogni! Negli anni ’90, sognavo una letteratura meno ossessionata dalla forma-romanzo, nella quale avesse più spazio proprio la non-fiction, così tipica peraltro della nostra tradizione letteraria. Da allora la non-fiction ha tracimato riempiendo l’intero orizzonte letterario: si vedano gli Strega a Nesi, Piccolo, Albinati, Siti, Janeczek, Trevi. Il fenomeno diventa preoccupante e tradisce una mancanza di immaginazione e ispirazione (e perfino di esperienza: la cerchiamo solo negli album di famiglia!). Luce d’Eramo diceva che lei scriveva per scomparire dentro i personaggi che creava. La autofiction attuale non solo non fa sparire l’autore, ma lo riafferma in tutto il suo ego ingombrante. Lo fa sparire dietro se stesso! Il premio Strega 2025 lo ha vinto il favorito – Andrea Bajani – e, aggiungo, il più meritevole. Ci torno tra poco. Inoltre, è stata smentita la mia (perfida) previsione che quest’anno i cinque finalisti, dopo essere stati vestiti dai più celebri stilisti nella scorsa edizione, avrebbero cucinato ciascuno un piatto gourmet sul palco con i cuochi di Masterchef! Niente di tutto questo. Hanno solo risposto alle garbatissime domande di Pino Strabioli, dopo un breve video che tentava di raccontarli in pochi minuti. Lì su quel palco sembravano tutti scrittori in attesa di Nobel.
Ma ripassiamo, velocemente, la cinquina. Prima solo un commento sul ministro Giuli, assente perché non ha mai ricevuto i libri della cinquina. Singolare: Giuli è un leader politico postmoderno, gramsciano ed evoliano, fascista e comunista, illuminista e cultore dell’esoterico, illimitatamente fluido, proteiforme, ma su un punto è intransigente: come lettore dello Strega! Del giovane Michele Ruol, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, trovo originale l’idea narrativa di raccontare un lutto insostenibile (la perdita dei figli) – attraverso gli oggetti. La narrazione indaga il sentimento di Madre e Padre con estremo pudore. Solo qualche caduta stilistica, dovuta a un editing frettoloso. Ad esempio: “Gli abiti erano solo una sineddoche del cambiamento”. Non è in sé scorretta, ma fa molto gergo culturale della middle class scolarizzata. Nadia Terranova (Quello che so di te) conferma i suoi talenti ed esplora una saga famigliare che sembra lontana ma in realtà parla dolorosamente di lei, dei suoi dilemmi. E lo fa con penetrazione e acume psicologico. Però forse la follia, la malattia mentale (della bisnonna) richiedeva una scrittura più radicale e dissonante.
Elisabetta Rasy (Perduto è questo mare) suggerisce un cortocircuito letterariamente suggestivo tra le figure del padre e di Dudù La Capria, sullo sfondo di una Napoli stregonesca, solare, virgiliana…A suo agio nel racconto dell’interiorità più riposta, entro una narrazione morantiana dei fantasmi. È vero, come dice, che molto di rado l’apparenza inganna, a conferma del valore della fisiognomica romanzesca. Ed è vero che per ognuno di noi – come per Enea – il destino non coincide con la propria natura (e vince sempre lui!). L’autrice ci ricorda che nella vita perdiamo sempre qualcosa (un amore, un’amicizia, un genitore, il “mare”, la felicità dell’adolescenza….). Viene il citato romanzo Il ponte di San Luis Rey di Thornton Wilder: “…l’amore sarà bastato e tutti gli impulsi dell’amore ritornano all’amore da cui sono venuti. C’è una terra dei vivi e dei morti, e il ponte è l’amore”. Solo un’osservazione, molto personale. Ho frequentato La Capria (sia pure molto meno di lei): la “complessità” dello scrittore è qui rappresentata, tuttavia mi piacerebbe vederne sviscerare il sottosuolo meno conciliato, che nega perfino il “senso comune” a lui caro. L’incredibile scoperta, a novant’anni, della Napoli plebea vedendo “Passione”di Turturro.
Paolo Nori dedica Chiudo la porta e urlo al poeta Raffaello Baldini, di Santarcangelo. Come in tutti gli altri suoi, possiede una “voce” che ti entra subito in testa, una mimesi vibrante del parlato, ma del parlato di uno che ragiona ad oltranza, che rimugina, sillogizza, si interroga, si sofferma sui dettagli. Come un mattoide della Pianura Padana, di quelli raccontati da Malerba, Celati, Cavazzoni…Certo rischia di continuo un alto manierismo, con il suo falsetto accurato e alla lunga stucchevole: “Che era uno, io l’avevo visto per la prima volta in un film che s’intitola L’aria serena dell’Ovest, che era un film che avevo visto per sbaglio…”. Però si tratta di una raccolta di pensierini e aforismi (sulla letteratura e sulla vita), piena di umorismo e malinconia.
Ne “L’Anniversario” di Bajani c’è una frase, all’inizio, molto dura (come tutto il libro) e a suo modo spettacolare: “Direi anni fa, quel giorno, ho visto i miei genitori per l’ultima volta. Da allora ho cambiato numero di telefono, casa, continente, ho tirato su un muro inespugnabile, ho messo un oceano di mezzo. Sono stati i dieci anni migliori della mia vita”. L’autore ha trattato frontalmente, temerariamente, il fantasma italiano per definizione: la Famiglia. Insinuando il sospetto che dietro l’emigrazione benestante di molti giovani si nasconda il desiderio di fuga da chi li ha messi al mondo! Bajani ha dovuto raffreddare fin troppo l’intera materia, forse per proteggersi a sua volta. A volte la sua prosa, pur nitida, sembra quasi formalizzarsi e burocratizzarsi. Apro a caso: “In mezzo a quel poco di circostanza intriso di paura…la visita era calendarizzata per la settimana successiva” (o anche l’uso di un termine così convenzionalmente letterario come “contezza”).
Resta però il ritratto memorabile della madre: non una madre debordante come quella di Il fuoco che ti porti dentro di Franchini, ma una madre assente, invisibile, che ha rinunciato da sempre alla vita (solo la gamba poliomelitica “violava quell’invisibilità, la condannava ad essere vista”). Ricordate Thornton Wilder? Il ponte – tra i vivi e i morti, tra i visibili e gli invisibili – è l’amore (per riuscire a ritrarre la madre, Bajani l’ha amata, in un modo straziante). La letteratura ha l’unico compito di “mostrarci” quel ponte, che spesso ci sembra impossibile. Non “dirlo” (diventerebbe didascalica), però “mostrarcelo” sì.
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