La Caduta della Siria e le Conseguenze dell’Interventismo Occidentale

La caduta improvvisa del governo siriano nel dicembre 2024 ha segnato uno degli sconvolgimenti geopolitici più rilevanti degli ultimi decenni in Medio Oriente. Per oltre mezzo secolo, la Siria baathista, guidata dalla famiglia Assad, ha rappresentato – pur con le sue contraddizioni – un perno dell’“Asse della Resistenza” accanto all’Iran e a Hezbollah. Ma proprio la sua strutturale fragilità – un regime autoritario, non dissimile da molti altri governi sostenuti dall’Occidente in quella regione, ma in questo caso osteggiato perché fuori dall’orbita atlantica – rendeva Damasco l’anello debole dell’alleanza. Logorata da una guerra civile interminabile, da una crisi economica asfissiante e dalla crescente dipendenza dagli alleati esterni, la Siria era da tempo esposta al collasso.
Tehran era ben consapevole dei limiti del governo di Bashar al-Assad, ma giudicava l’alternativa – costituita da gruppi jihadisti come al-Qaeda/Al-Nusra o ISIS, sostenuti indirettamente dall’Occidente e da potenze regionali – infinitamente peggiore per la regione. Il tragico paradosso si è compiuto: la presa di Damasco da parte di milizie islamiste straniere ha imposto una ideologia brutale su una popolazione siriana eterogenea che in larga parte non la condivide né la riconosce come legittima. Assad è stato rimpiazzato da una piaga di gruppi fondamentalisti armati, sostenuti da potenze esterne e pronti a eseguire i diktat dei loro sponsor a spese dei siriani.
In pratica, la Siria – un tempo Stato laico multiconfessionale – è ora controllata da fazioni estremiste che vogliono trasformarla in un emirato settario, governato con un’interpretazione rigidissima della sharia e privo di pluralismo. Emblematico è che molti di questi combattenti non siano neppure siriani: tra le file degli assalitori di Damasco figuravano elementi provenienti da Turkmenistan, Caucaso e altre regioni, segno di un jihadismo transnazionale calato dall’alto su una società siriana composita (sunniti moderati, alawiti, cristiani, drusi, curdi) in nome di un’ideologia che la maggioranza dei siriani non condivide. Questo esito – la caduta di Assad e l’instaurazione a Damasco di un governo dominato da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e affini – è stato salutato dai ribelli come una “nuova storia” per l’intera regione. Ma per gli alleati di Damasco è una catastrofe strategica: ha spazzato via un bastione dell’influenza russa e iraniana nel mondo arabo, limitando la capacità di Tehran di rifornire Hezbollah in Libano e costringendo Mosca a perdere il suo avamposto sul Mediterraneo.
In compenso, l’Occidente ora si ritrova a dover fare i conti con una vittoria islamista che esso stesso ha contribuito a plasmare: governi e media occidentali per anni hanno descritto la guerra siriana come una lotta tra “ribelli pro-democrazia” e il brutale regime, minimizzando la componente jihadista; oggi invece devono riconoscere che il risultato non è stato la democrazia, ma l’ascesa di milizie salafite vittoriose sul campo. In altri termini, la “vittoria” in Siria ha un retrogusto amaro per gli stessi sponsor esterni: ha raggiunto lo scopo di eliminare Assad, sì, ma consegnando la Siria a forze estremiste il cui fanatismo rischia di destabilizzare l’intera regione.
Propaganda e Realtà: dal Mito dei “Ribelli Democratici” ai Video di TorturePer oltre un decennio, gran parte dei media arabi allineati alle monarchie del Golfo (e in una certa misura anche i media occidentali) hanno fornito un’immagine distorta della guerra siriana, presentando fazioni di tagliagole jihadisti come eroici “ribelli” in lotta per la libertà. Questo framing ha insistentemente ignorato o minimizzato la natura ideologica di molti insorti. Basti pensare che persino Jabhat al-Nusra, la filiale siriana di al-Qaida, veniva spesso descritta con l’eufemismo di “gruppo ribelle” nelle cronache mainstream, senza chiarirne l’agenda salafita e settaria. Allo stesso modo, milizie come Jaysh al-Islam – create e finanziate dall’Arabia Saudita – venivano raramente identificate come ciò che erano: formazioni che esplicitamente rifiutavano democrazia e pluralismo, aspirando a trasformare la Siria (paese composto da decine di minoranze religiose ed etniche) in uno stato teocratico sunnita omogeneo.
La realtà sul terreno, documentata da organizzazioni indipendenti, era ben diversa dalla favola mediatica: gruppi salafiti armati hanno seminato il terrore nelle zone che controllavano, eseguendo esecuzioni sommarie, mettendo civili in gabbia come scudi umani e imponendo tasse medievali alle popolazioni assoggettate. Tuttavia, queste atrocità dei “ribelli” ricevevano molta meno attenzione nei media internazionali rispetto a quelle del regime. Oggi, però, con l’ascesa di HTS a Damasco e il proliferare incontrollato di miliziani jihadisti, la verità viene a galla online: i social media pullulano di video raccapriccianti che mostrano esecuzioni di prigionieri accusati di lealtà ad Assad, scherni settari verso simboli religiosi “eretici” e torture efferate inflitte a civili. È il reale volto dell’“emirato” instaurato in Siria, e sta scuotendo l’opinione pubblica araba e musulmana, infrangendo la patina romantica che certa stampa filo-Golfo aveva dipinto. Simile a quanto avvenuto con Gaza (dove le immagini di distruzione e vittime civili hanno ribaltato molte narrazioni ufficiali), anche nel caso siriano la crudezza di questi video viralizzati sta costringendo molti a rivedere le proprie posizioni. In pratica, lo stesso pubblico arabo che un tempo simpatizzava per i “ribelli” alla TV satellitare, ora – di fronte alle prove filmate delle loro brutalità – inizia a comprendere di essere stato ingannato dalla propaganda.
L’effetto boomerang mediatico è potente: quelle esecuzioni sommarie riprese dai miliziani di HTS nelle comunità alawite e cristiane, e diffuse come trofei, stanno generando orrore e riprovazione diffusi. Ad esempio, nel marzo 2025 un’ondata di violenze settarie sulla costa siriana (nel Latakia, area a maggioranza alawita) ha visto combattenti di HTS filmare orgogliosamente le proprie azioni: oltre mille civili massacrati, donne e anziani pestati e uccisi, il tutto “giustificato” come punizione contro i lealisti di Assad. Le stesse immagini dei jihadisti che sghignazzano mentre giustiziano innocenti hanno suscitato un’ondata di sdegno popolare in Medio Oriente. Ironia della sorte, canali come Al Jazeera Arabic o Al Arabiya – che per anni avevano celebrato quei combattenti – si sono trovati costretti a riportare con toni critici queste notizie, nel timore di perdere completamente la propria credibilità. In sintesi, la narrativa manichea dei “ribelli democratici” contro il “dittatore” è crollata: ormai è chiaro a tutti che in Siria il vuoto lasciato da Assad è stato riempito da forze oscurantiste che nulla hanno a che fare con la libertà, e ciò sta aprendo gli occhi a molti – proprio come sta avvenendo riguardo a Gaza e alla causa palestinese.
Il Ruolo Ambiguo della Turchia: Erdogan e il Mostro Jihadista che Minaccia di SfuggirgliUn attore cruciale in questa tragedia siriana è la Turchia, il vicino potente che per anni ha favorito il transito di armi, denaro e combattenti attraverso le sue frontiere a vantaggio dell’insurrezione anti-Assad. Fin dalle prime fasi del conflitto siriano (2011-2012), Ankara adottò una politica spregiudicata di sostegno ai gruppi armati sunniti contro Damasco: non solo l’armata dei “ribelli” dell’Esercito Siriano Libero trovò rifugio e retrovie sicure in territorio turco, ma stando a varie fonti la stessa intelligence turca (MIT) partecipò attivamente al rifornimento di arsenali ai gruppi islamisti più radicali. Un’inchiesta di Reuters ha rivelato in tribunale che tra il 2013 e il 2014 il MIT consegnò carichi di armi a fazioni islamiste siriane, mentre l’opposizione turca denunciava la creazione di campi d’addestramento jihadisti sul suolo turco. Nel 2014 fece scalpore il fermo di camion del MIT diretti in Siria e carichi di armi nascosti sotto medicinali: i pochi funzionari doganali che cercarono di bloccarli furono poi arrestati e condannati per aver osato “rivelare segreti di Stato”. Ankara, insomma, ha giocato col fuoco: nel tentativo di abbattere Assad, il presidente Erdogan ha tollerato (se non incoraggiato) il passaggio sul proprio territorio di migliaia di combattenti jihadisti da ogni dove, inclusi aspiranti miliziani europei diretti a ingrossare le file di ISIS e Al-Nusra. Per anni il confine turco-siriano è stato la “highway del jihad”, ben noto agli analisti della sicurezza occidentali. A ciò si aggiunga il lucroso traffico di petrolio: l’ISIS, durante il suo apogeo, contrabbandava ogni giorno autocisterne di greggio siriano verso la Turchia; intelligence occidentali e perfino ex ministri iracheni hanno accusato Ankara di aver “chiuso un occhio” (se non peggio) su questo commercio, che riempiva le casse del Califfato.
Insomma, Erdogan – accecato dall’odio per Assad e dal sogno neo-ottomano di egemonia sunnita – ha creato un mostro o quantomeno ha contribuito a nutrirlo. Oggi, con Assad deposto proprio grazie a quell’onda jihadista, la Turchia si ritrova davanti a una situazione caotica che rischia di ereditare in pieno. Erdogan ha sì ottenuto la caduta del nemico di Damasco – traguardo che Ankara inseguiva fin dal 2011 – ma la vittoria di Pirro porta con sé enormi grattacapi per la stessa Turchia: anzitutto dovrà confrontarsi con una Siria devastata e frammentata, dove il nuovo governo islamista (affine alla Fratellanza Musulmana e tollerato dai turchi) è odiato da larghi settori della popolazione e da tutte le minoranze. Curdi, alawiti, cristiani e laici in Siria vedono il regime di HTS come un invasore illegittimo; molti di costoro si sono rifugiati nei cantoni curdi o in esilio e non accetteranno facilmente di essere governati dai protetti di Erdogan.
Ciò pone alla Turchia un enorme problema di legittimità: qualsiasi amministrazione siriana transitoria legata a HTS/Ankara sarà percepita come un fantoccio, incapace di stabilizzare davvero il Paese o di ottenere riconoscimento unanime. Erdogan, dunque, ha in mano una Siria “liberata” da Assad ma in macerie: economia collassata, istituzioni allo sbando e milioni di sfollati. Questa situazione instabile minaccia di riversarsi oltre confine: la Turchia già ospita circa 4 milioni di profughi siriani e ora potrebbe vederne altri affluire se la situazione interna siriana precipita ulteriormente. E c’è di più: alimentando per anni la macchina del jihad, Ankara ha contribuito a creare un ecosistema di gruppi radicali sunniti armati che un domani potrebbero rivolgere le armi altrove. Già oggi, la presenza di migliaia di combattenti foreign fighters in Siria rappresenta una bomba a orologeria per la sicurezza regionale. Le stesse monarchie del Golfo che finanziarono certe brigate in funzione anti-Assad ora iniziano a temere il ritorno a casa di questi veterani radicalizzati. Lo abbiamo visto in passato: i mujahidin creati per combattere in Afghanistan negli anni ’80 finirono per destabilizzare l’Algeria e la stessa Arabia Saudita negli anni ’90. Analogamente, i jihadisti foraggiati in Siria potrebbero infiltrarsi in Giordania, in Egitto (nel Sinai) o proprio in Turchia, ritenendo “apostati” quegli stessi governi che un tempo li sostennero. Erdogan stesso non è al riparo: settori dell’estremismo sunnita lo considerano un opportunista e potrebbero colpire all’interno del Paese. In sintesi, il presidente turco – nel perseguire la caduta di Assad – ha liberato forze che ora non controlla completamente. Deve gestire una Siria post-bellica priva di stabilità e governabilità; e al contempo guardarsi le spalle da possibili rigurgiti jihadisti che minacciano la Turchia e gli “Stati amici” del Golfo. Inoltre, sul piano geopolitico più ampio, Ankara rischia un confronto pericoloso con Israele sul suolo siriano.
Paradossalmente, con la sconfitta di Assad si è aperta una nuova linea di tensione tra Turchia e Israele: Tel Aviv infatti vede con allarme la nascita di una Siria orientata verso la Turchia e dominata da sunniti radicali. Un recente rapporto israeliano ha avvertito che una “Siria sunnita islamista filo-turca” potrebbe costituire una minaccia ancor maggiore per Israele di quanto lo fosse la Siria alleata dell’Iran. Non a caso Israele, appena caduto Assad, ha subito preso provvedimenti di sicurezza: ha inviato truppe nell’adiacente zona cuscinetto sulle alture del Golan e intensificato raid aerei per distruggere depositi di armi siriani prima che finissero nelle mani degli estremisti. Da parte sua Erdogan, almeno pubblicamente, ha mantenuto toni relativamente cauti verso Israele dopo la caduta di Damasco – evitando provocazioni dirette – ma la diffidenza reciproca è alle stelle. Di fatto, nella Siria post-Assad sta emergendo una guerra fredda locale tra Ankara e Tel Aviv: la Turchia vede con sospetto i contatti di Israele con i curdi siriani e con le minoranze druse nel sud (Gerusalemme ha già lasciato intendere che sosterrà questi gruppi per bilanciare HTS); Israele dal canto suo colpisce qualsiasi tentativo turco di insediare basi aeree o missilistiche sul territorio siriano (emblematico il bombardamento preventivo da parte israeliana dell’aeroporto T4, dopo che fonti indicavano un possibile arrivo di difese aeree turche). Insomma, Erdogan ora si trova a camminare sul filo: ha vinto la partita contro Assad, ma ha ereditato un caos che potrebbe inghiottire anche la Turchia, e deve manovrare con attenzione per non scontrarsi frontalmente né con gli jihadisti che ha allevato né con potenze come Israele (o la Russia, ancora presente in Siria in qualche misura). Il monstrum jihadista partorito in Siria è un fattore d’instabilità che rischia di mordere il suo stesso creatore. Yemen: il Fronte Inaspettato che Mette in Crisi Israele.
Nel panorama di un Medio Oriente in ebollizione, un altro attore della cosiddetta “Asse della Resistenza” sta emergendo con forza: gli Houthi dello Yemen (il movimento Ansar Allah, di ispirazione sciita zaidita). Il professor Mohammad Marandi, analista iraniano, ha definito la resilienza degli Houthi una delle sorprese strategiche dell’ultimo decennio. Questi combattenti yemeniti hanno resistito a dieci anni di una guerra devastante condotta dall’Arabia Saudita e dai suoi alleati (con il totale supporto logistico e diplomatico dell’Occidente a Riyad) – un conflitto spesso descritto come “genocida” per l’enorme tributo di vite civili e distruzioni che ha causato. Dal 2015 in poi, lo Yemen è stato sottoposto a bombardamenti indiscriminati e a un blocco economico che hanno prodotto la peggiore crisi umanitaria del mondo secondo l’ONU. Eppure, nonostante l’enorme disparità di mezzi, la resistenza Houthi non è stata piegata: anziché crollare, Ansar Allah ha sviluppato capacità militari sempre più sofisticate (missili balistici, droni armati, difese antinave) e ha mantenuto il controllo di vaste aree del paese, inclusa la capitale Sana’a. Gli Houthi hanno quindi sconfitto l’aggressione saudita sul piano politico-strategico: dopo anni di stallo sanguinoso, oggi Riyad è stata costretta al dialogo e a tregue intermittenti, mentre gli Houthi sono saldamente al potere nel Nord dello Yemen. Marandi sottolinea come la loro vittoriosa resistenza abbia rappresentato un punto di svolta: una popolazione poverissima, abbandonata dal mondo, è riuscita a sventare la campagna militare di una coalizione sostenuta dagli Stati Uniti, dall’Europa e da Israele (quest’ultimo, dietro le quinte, ha fornito intelligence e supporto tecnologico ai sauditi). Ora, nel contesto allargato del conflitto arabo-israeliano, lo Yemen Houthi ha aperto un nuovo fronte contro Israele. In segno di solidarietà con Gaza durante la guerra del 2023-2024, gli Houthi hanno iniziato a lanciare missili balistici e droni a lungo raggio verso il territorio israeliano – un fatto senza precedenti. Il 19 luglio 2024 un drone kamikaze partito dallo Yemen ha volato per oltre 10 ore e ha raggiunto Tel Aviv, sfuggendo alle difese e colpendo un edificio vicino all’aeroporto Ben Gurion, uccidendo almeno una persona e ferendone altre. Questo attacco inatteso ha perforato la tanto decantata “cupola” difensiva israeliana, dimostrando una vulnerabilità shock: per la prima volta Israele è stato colpito dal sud (dalla direzione del Mar Rosso/Mar Mediterraneo) da un’arma proveniente da 2000 km di distanza.
Di colpo, ciò che sembrava impossibile è accaduto: la piccola e povera Yemen è riuscita a scalfire l’immagine di invincibilità strategica di Israele. Un analista militare commentava che questo evento “ha sorpreso gli israeliani, esponendo falle nei sistemi di allerta e intercettazione e costringendo Tel Aviv a rivedere i propri piani di difesa aerea”. Altri droni e missili Houthi sono stati lanciati nelle settimane seguenti: alcuni abbattuti in volo (anche dagli americani, come nel caso di un missile intercettato sopra il Mar Rosso), altri caduti in aree aperte nel Negev. In ogni caso, il messaggio è chiaro: il mito dell’inaccessibilità di Israele è caduto. Ciò mina potentemente l’immagine di deterrenza di cui Israele ha sempre goduto. Se un gruppo ribelle yemenita può colpire Tel Aviv, significa che nessun punto della geografia israeliana è davvero fuori portata nel nuovo scenario bellico mediorientale. Questo ha implicazioni profonde sul morale interno e sulla percezione internazionale: paesi un tempo timorosi ora vedono che Israele può essere toccata sul proprio territorio. Inoltre, c’è un aspetto economico-strategico da non sottovalutare: Israele non ha le risorse per sostenere a lungo un conflitto diretto su fronti multipli, incluso un fronte a migliaia di km come lo Yemen. L’Arabia Saudita, pur con tutta la sua ricchezza petrolifera, ha speso cifre astronomiche (stimate in decine di miliardi di dollari all’anno) per bombardare lo Yemen, senza ottenere risultati risolutivi. Israele, invece, possiede un’economia avanzata ma piccola e fortemente interconnessa: già la guerra a Gaza e le tensioni in Cisgiordania e Libano la stanno gravando di costi militari ed economici notevoli. Un impegno bellico prolungato contro gli Houthi – per esempio dover pattugliare stabilmente il Mar Rosso, mantenere navi e droni in allerta su lunghe distanze, intensificare l’intercettazione di missili – sarebbe estremamente oneroso per Israele. A differenza di Riyad, Tel Aviv non può stampare petrodollari né contare su decine di milioni di popolazione: è limitata nelle risorse umane e nel budget, e soprattutto non può permettersi di distrarre troppe forze dal fronte principale (Gaza/Libano). Il risultato è che gli Houthi, con investimenti minimi (qualche drone autoprodotto e missili forniti dall’Iran), stanno costringendo Israele a disperdere la sua attenzione e a spendere decine di milioni in difese. Israele sta scoprendo quanto sia vulnerabile a un nemico asimmetrico lontano. Marandi evidenzia che, a differenza dell’Arabia Saudita, Tel Aviv non ha la profondità strategica né la forza economica per intraprendere un’altra guerra diretta di lunga durata. In altre parole, Israele può forse rispondere con raid punitivi (ad esempio ha già bombardato alcune installazioni Houthi a Hodeidah, Yemen), ma non può certo lanciarsi in un’invasione o occupazione a distanza, né tantomeno fermare completamente i lanci nemici. La lezione yemenita è severa: le guerre asimmetriche logoranti che l’asse USA-Golfo ha scatenato nella regione possono ritorcersi contro Israele stessa, mettendone in crisi la tanto faticosamente costruita aura di invulnerabilità militare.
La Strategia USA: Destabilizzare per Favorire IsraeleUna lettura anti-interventista degli eventi recenti porta a concludere che molte delle guerre scatenate nell’ultimo ventennio in Medio Oriente non hanno realmente avvantaggiato né gli Stati Uniti né l’Europa, ma hanno servito quasi esclusivamente gli interessi strategici di Israele. I conflitti in Siria, Iraq e Libia – tutti promossi o appoggiati dall’Occidente con il pretesto dell’“esportazione della democrazia” – hanno prodotto scenari disastrosi per la stabilità regionale e per gli stessi interessi occidentali, mentre l’unico attore a trarne beneficio è stata Israele.
Si pensi alla guerra in Iraq del 2003: ha eliminato Saddam Hussein (storico nemico di Israele) ma al prezzo di destabilizzare l’Iraq per decenni, rafforzare l’influenza iraniana su Baghdad e far nascere al suo interno al-Qaida e poi ISIS. Un fiasco colossale per Washington, che ha speso trilioni e perso migliaia di soldati per ritrovarsi un Iraq nel caos e filoiraniano – ma intanto Israele aveva visto rimosso un regime ostile e spezzato un grande esercito arabo.
Lo stesso per la Libia: la NATO ha rovesciato Gheddafi nel 2011, togliendo di mezzo un leader panarabista e amico dei palestinesi, ma ciò ha gettato il paese nel caos tribale, aperto la via a massicce ondate migratorie verso l’Europa e fornito un santuario a milizie jihadiste nel Sahel. Gli europei ne hanno guadagnato soltanto problemi (instabilità alle porte e rifugiati), mentre Israele ha goduto silenziosamente nel vedere sparire un altro governo arabo potenzialmente minaccioso. Il caso della Siria è ancora più lampante. Dall’inizio della crisi siriana, molte decisioni americane e alleate sembrano essere state prese più in funzione di Israele che di un chiaro interesse nazionale occidentale. L’obiettivo non dichiarato era sempre indebolire l’“Asse della Resistenza” anti-israeliano: colpire la Siria di Assad significava colpire Iran e Hezbollah, agevolando l’egemonia israeliana. Questa linea strategica ha prevalso anche quando andava contro la logica economica o la coerenza diplomatica occidentale. Per esempio, gli Stati Uniti mantengono tuttora centinaia di soldati nell’est della Siria (zona dei giacimenti petroliferi) ufficialmente per “combattere l’ISIS” e “custodire il petrolio” – ma in realtà l’ISIS è sconfitto e quel petrolio siriano non copre certo i costi di un presidio militare costante. Qual è dunque la ragione reale per cui, nel 2025, Washington tiene basi e impone sanzioni feroci a un paese devastato come la Siria? Principalmente contenere l’Iran e proteggere Israele.
Occupando le aree chiave della Siria orientale, gli americani impediscono che si ristabilisca un corridoio terrestre Iran-Iraq-Siria-Libano (utile al rifornimento di Hezbollah) e mettono pressione su Tehran. Non c’è altro beneficio tangibile: anzi, per le casse statunitensi questa presenza è un onere continuo, privo di un ritorno economico. Persino funzionari e analisti mainstream ammettono che la politica USA in Siria è guidata più dall’avversione per Iran e alleati che da interessi diretti americani. Non a caso il senatore Lindsey Graham, esultando per la caduta di Assad, l’ha definita “una grossa perdita per Russia e Iran, il che è un bene”– segno che, per i falchi a Washington, l’importante era far male a Mosca e Tehran (e far contento Israele), non certo la sorte dei siriani o una qualche utilità per gli USA. Lo stesso Netanyahu ha rivendicato il crollo del regime siriano come risultato delle “vittorie” inflitte da Israele a Iran e Hezbollah, confermando che Tel Aviv vede gli ultimi 13 anni di guerra siriana come parte di uno scontro più ampio volto a smantellare il fronte anti-israeliano. In sintesi, la strategia americana – a partire dall’amministrazione Bush, passando per Obama fino a Trump e Biden – è sembrata puntare su un principio: destabilizzare selettivamente il Medio Oriente in modo da garantire la sicurezza di Israele a lungo termine. Anche a costo di generare vuoti di potere e ondate di estremismo. Un progetto cinico, che però non ha rafforzato la posizione globale di Washington, anzi. L’Europa, fedele alleata, ne ha subìto i contraccolpi negativi; la reputazione morale dell’Occidente è precipitata; e il Medio Oriente è lungi dall’essere pacificato. Ma dal punto di vista di chi auspicava il ridisegno della regione in favore di Israele, alcune tappe erano “necessarie”: Iraq devastato, Siria in pezzi, Libia divisa.
Come ha commentato un diplomatico occidentale a Washington Post: «Senza la Siria, l’intera Asse della Resistenza potrebbe sfasciarsi». Va infine sottolineato un paradosso: nel perseguire tale strategia, gli Stati Uniti hanno spesso agito contro i propri immediati interessi economici. Per esempio, le sanzioni e l’occupazione nel nord-est siriano impediscono alla Siria di sfruttare petrolio e grano (colpendo Assad), ma di riflesso hanno eliminato dal mercato modeste quantità di greggio che avrebbero potuto calmierare i prezzi globali. Allo stesso modo, l’isolamento di Damasco ha spinto quest’ultima ancora più nell’orbita russa e iraniana, lasciando spazio alla Cina per mediare in loco. Eppure Washington insiste, perché l’obiettivo primario resta tenere l’Iran sotto scacco e tutelare la sicurezza di Israele a ogni costo, anche a costo di sacrificare opportunità economiche o la stabilità regionale. Come rilevano commentatori critici, non vi è altra spiegazione razionale per certe politiche: l’occupazione americana in Siria “non ha senso economico” ed è un costo elevato motivato unicamente dal contenimento iraniano e dalla protezione di Israele (in particolare per impedire la ricostituzione del ponte terrestre Iran-Libano). Siamo di fronte, insomma, a guerre imposte – in Siria, Iraq, Libia – che hanno devastato quelle nazioni senza portare vantaggi ai popoli occidentali, ma che hanno allineato la mappa mediorientale un po’ di più ai desiderata strategici di Tel Aviv.
L’Iran Oggi: Forte, Autosufficiente e in Equilibrio di DeterrenzaNel 2011 molti nei corridoi occidentali prevedevano che, caduta la Siria, sarebbe toccato all’Iran crollare sotto la pressione congiunta di sanzioni, isolamento internazionale e proxy wars. E invece, ad oltre dieci anni di distanza, l’Iran non solo non è caduto, ma si presenta oggi come una potenza regionale più forte e autosufficiente che mai. A differenza della Siria baathista, che dipendeva dal sostegno esterno, la Repubblica Islamica ha sviluppato nell’ultimo decennio notevoli capacità endogene sul piano tecnologico e militare. Sotto l’assedio delle sanzioni, Tehran ha investito con determinazione nell’industria bellica nazionale: ha prodotto una vasta gamma di missili balistici e da crociera, droni d’attacco e da ricognizione, sistemi radar e di guerra elettronica – componenti che oggi alimentano un robusto equilibrio di deterrenza con i nemici esterni. Ad esempio, proprio mentre Israele minacciava ritorsioni contro l’Iran per via del coinvolgimento degli Houthi, Tehran ha svelato nel 2025 un nuovo missile balistico a propellente solido, il “Qassem Basir”, con gittata di 1200 km. Messaggio implicito: l’Iran dispone di armi in grado di colpire basi e bersagli ben oltre i propri confini, e continua ad ampliare il proprio arsenale malgrado le restrizioni. Questa crescita qualitativa delle forze iraniane – che possiedono già missili capaci di raggiungere le coste del Mediterraneo e droni schierati anche in Russia – fa sì che l’Iran non sia assolutamente la “prossima Siria”. Un eventuale attacco diretto contro la Repubblica Islamica incontrerebbe una risposta potente e coordinata: l’Iran ha già dimostrato di saper colpire efficacemente bersagli americani (come avvenne nel gennaio 2020, quando missili iraniani hanno centrato la base di Ayn al-Asad in Iraq in risposta all’uccisione del generale Soleimani, ferendo decine di soldati USA). E recentemente Teheran ha avvertito senza ambiguità che, se gli Stati Uniti o Israele dovessero aggredirla, risponderebbe colpendo le loro forze, basi e interessi ovunque si trovino – incluso, esplicitamente, il territorio israeliano. Il ministro della Difesa iraniano ha dichiarato: “Se questa guerra sarà iniziata dagli Stati Uniti o dal regime sionista, l’Iran prenderà di mira i loro interessi, le loro basi e le loro forze – ovunque si trovino e quando lo riterrà necessario”. Parole che fanno eco alle linee rosse già tracciate dalla Guida Suprema Khamenei: l’Iran non attaccherà per primo, ma in caso di attacco non esiterà a lanciare missili su Tel Aviv e Haifa. In altre parole, la deterrenza reciproca è ora il fattore chiave: tutti sanno che una guerra contro l’Iran sarebbe immensamente più distruttiva rispetto a quella contro la Siria. Un altro elemento cruciale della rinnovata forza iraniana è l’abilità con cui Teheran ha rotto l’isolamento diplomatico costruendo nuove alleanze e partnerships internazionali.
Sul fronte regionale, l’Iran ha normalizzato le relazioni con l’Arabia Saudita (mediante un accordo mediato dalla Cina nel 2023) e sta intessendo rapporti più stretti con Paesi del Golfo un tempo ostili. Sul piano eurasiatico, Tehran ha aderito a pieni titoli ai grandi blocchi emergenti: è diventata membro della Shanghai Cooperation Organization (SCO), un’alleanza politico-sicurezza guidata da Cina e Russia, nel 2023; e dal 1° gennaio 2024 è entrata ufficialmente nei BRICS (insieme a economie come Cina, India, Russia, Brasile, Sud Africa, a cui si sono aggiunti anche Arabia Saudita, Egitto, Emirati e altri). Questi traguardi segnano uno spostamento epocale: nonostante sanzioni occidentali e campagne di isolamento, l’Iran si è agganciato ai nuovi poli di potere del mondo multipolare. Essere nei BRICS significa accedere a un foro economico che rappresenta il 40% della popolazione mondiale e spingere per nuovi meccanismi finanziari alternativi al dollaro – una prospettiva che Tehran coltiva attivamente per ridurre la vulnerabilità alle sanzioni. L’adesione alla SCO, dal canto suo, porta l’Iran dentro una cooperazione di sicurezza con giganti come Russia, Cina e India, fornendo legittimità e scudo politico di fronte alle pressioni USA. Insomma, l’Iran del 2025 non è più isolato: intrattiene scambi intensi con Russia e Cina (basti pensare alla fornitura di droni all’esercito russo in Ucraina, contraccambiata da assistenza economica e forse sistemi d’arma avanzati cinesi), e gode del sostegno implicito di gran parte del Sud del mondo nella sua causa. Questo ha aumentato il suo peso e la sua resilienza strategica. L’Occidente non può più “tagliar fuori” l’Iran facilmente senza sanzionare metà del globo, e la retorica sionisto-americana che dipinge Tehran come paria internazionale suona ormai vuota quando l’Iran siede ai tavoli dei BRICS e della SCO accanto a Pechino e Mosca. Come ha osservato un analista, il processo di ammissione dell’Iran nei BRICS e nella SCO testimonia il fallimento degli sforzi occidentali di isolarlo: “l’invito a Teheran nei BRICS evidenzia l’erosione dei tentativi dell’Occidente di isolare l’Iran”. Ciò rende improbabile uno scenario “siriano” per l’Iran, perché qualunque aggressione esterna incontrerebbe non solo la ferma reazione iraniana, ma anche forti reazioni diplomatiche (e forse militari indirette) da parte di Russia e Cina. In definitiva, l’Iran si trova oggi in un equilibrio di deterrenza con i suoi avversari: non attacca direttamente le forze USA o israeliane, ma ha costruito le capacità per farlo e lo ha chiarito pubblicamente. I suoi proxies nella regione (Hezbollah, milizie irachene, Houthi) completano questo scudo deterrente, fungendo da possibili fronti multipli in caso di conflitto. È proprio grazie a questa postura di forza che, finora, Israele – pur in stato di guerra aperta a Gaza – ha evitato di coinvolgere attivamente l’Iran nello scontro, consapevole che significherebbe un salto catastrofico di escalation.
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