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La lezione radicale di Yoko Ono per questo tempo di guerra

La lezione radicale di Yoko Ono per questo tempo di guerra

Che cosa resta di un’artista, quando si toglie il racconto che la precede? Al Gropius Bau di Berlino, la mostra Music of the Mind, realizzata in collaborazione con la Tate Modern, prova a rispondere attraversando oltre settant’anni del lavoro di Yoko Ono, pioniera dell’arte partecipativa.

Nata a Tokyo nel 1933 in una famiglia colta e benestante, Yoko Ono ha attraversato il Novecento con il doppio sguardo di chi vive tra Oriente e Occidente. Trasferitasi negli Stati Uniti negli anni ’50, è stata una delle prime donne asiatiche a imporsi nella scena d’avanguardia newyorkese, diventando figura chiave del movimento Fluxus, che rifiutava l’arte come oggetto e privilegiava gesto, idea, partecipazione. Oggi, a 91 anni, continua a interrogare il nostro rapporto con potere, pace e cura collettiva.

Ono ha attraversato e anticipato molte delle correnti più radicali del secondo Novecento: dal Fluxus, appunto, alle pratiche relazionali degli anni ’90 e 2000. Per molti è ancora solo “la moglie di John Lennon” o “la responsabile dello scioglimento dei Beatles”, tutt’al più un’icona accessoria: etichette che svaniscono davanti all’evidenza delle sue opere.

Tra le prime a teorizzare un’arte che non produce oggetti ma esperienze collettive, il suo lavoro attraversa installazioni, performance, video, testi brevi, istruzioni da seguire o immaginare. Sempre con un intento: trasformare lo spettatore in protagonista, artefice a sua volta. Molti elementi oggi familiari nell’arte contemporanea – partecipazione del pubblico, invito all’azione, assenza di un’opera “finita” – passano da lei.

Fin dalle prime due installazioni, il visitatore è infatti chiamato a fare i conti con il presente, la collettività e la responsabilità. Un manifesto campeggia nell’atrio del Gropius Bau: PEACE is POWER. Al di sotto, piccolo ma simbolico, il Wish Tree for Berlin, attivo dal 1996, invita ad appendere desideri scritti a mano. Due elementi chiave emergono: creazione collettiva, volontà di pace e giustizia. Insieme, si fa l’opera, come il mondo. Lo stesso spirito anima la storica campagna War is Over! (If You Want It), che Ono realizzò con Lennon nel 1969: manifesti bianchi, desideri in nero. La pace è possibile, ma va voluta.

La mostra non cerca smentite né rivalse: c’è solo l’artista, con la sua opera. Una retrospettiva senza compromessi, che restituisce Ono nella sua interezza: prima del marito, oltre il marito, anche con il marito. Quando John Lennon la incontrò nel 1966 a una mostra, rimase colpito da un’opera che lo invitava ad arrampicarsi su una scala e guardare dentro una lente sospesa. In cima c’era la parola YES. Quel sì, poetico e semplice, lo sedusse. Tutto, in lei, è ribaltamento e invito all’azione.

La mostra è fatta di silenzi e clamori. Di dettagli minimi che chiedono attenzione, e di performance impossibili da ignorare. Vere e proprie istruzioni, poi, lo sono le Instructions for Paintings, da attivare, vivere, eseguire. Alcune punteggiano i muri della mostra con messaggi semplici e immaginifici: “Draw a map to get lost”, “Listen to a heartbeat”, “Imagine letting a goldfish swim across the sky”.

Frasi brevi che sollecitano il pensiero. L’arte di Ono è relazione: con il pubblico, con sé stessa, con l’ambiente. Il curatore Hans Ulrich Obrist – tra i primi a raccogliere sistematicamente le sue istruzioni – ha definito il suo lavoro come una radicale “arte del possibile”. Uno spazio in cui il pubblico smette di guardare e comincia a fare.

La sensazione di spiazzamento e densità si ritrova nella Blue Room Event (1966). Una stanza apparentemente vuota, riempita da esercizi d’immaginazione. L’invito è a restare fino all’“evento della stanza blu”, ovvero finché la stanza non diventerà blu. È questa stanza che, dopo l’atrio, apre il percorso della mostra: coerentemente con la logica di ribaltamento dell’artista, il pavimento si fa soffitto e viceversa. L’allestimento, curato da Juliet Bingham e Stephanie Rosenthal, segue una logica tematica più che cronologica, restituendo coerenza e continuità all’opera di Ono. Ogni sala è uno spazio da attivare, più che da osservare.

Che la stanza diventi davvero blu, ha poca importanza: conta immaginarlo, desiderarlo. Una delle microscopiche didascalie recita: “This line is part of a very large circle”. Una minuscola evidenza che racchiude il senso della mostra: ciò che hai saputo finora è solo un frammento del cerchio che è Yoko Ono.

Anche il corpo, come le parole, è per Ono spazio di significato: fragile, esposto, collettivo. Lo diventa ancora di più in movimento. In Film No. 4 (Bottoms) del 1966 scorrono i glutei di decine di persone che camminano. Il messaggio? Restituire al corpo la sua dignità naturale. Più spiazzante ancora Cut Piece, dove il pubblico è invitato a tagliare pezzi di stoffa dall’abito dell’artista. Un gesto che denuncia la passività dello spettatore, l’egoismo dei creatori, e si fa atto politico, quasi umanitario. Ancora più intensa Freedom (1970), dove Ono tenta più volte di togliersi il reggiseno, con rabbia e frustrazione: una lotta per liberarsi da un sistema che imprigiona corpi e menti.

Oltre l’arte e la partecipazione, c’è la volontà di liberare anche gli altri. È il senso di una delle opere più forti: Add Colour (Refugee Boat). Uno scafo bianco occupa il centro di una stanza ormai completamente ricoperta di scritte blu, lasciate dai visitatori. Perché partecipare, qui, significa prendere posizione. Quello che resta è un cumulo caotico che somiglia a una preghiera collettiva. Blu come il mare e la tristezza.

Chiude la mostra un altare laico alla maternità: My Mommy is Beautiful, una stanza bianca tappezzata di post-it dedicati alle madri, biologiche o simboliche.

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Incompresa, ridicolizzata per decenni dalla stampa, Ono ha resistito con fermezza e ironia, anticipando linguaggi che solo oggi trovano pieno riconoscimento. Il catalogo raccoglie anche alcune delle sue “istruzioni” più rare e riflessioni sulla sua influenza profonda su intere generazioni.

Settant’anni dopo le sue prime istruzioni, Yoko Ono non chiede risposte, ma gesti. Non soluzioni, ma immaginazione, partecipazione, responsabilità. Prendere un pezzo di cielo di Berlino (come in pieces of sky) e portarselo via. Riappropriarsi di un frammento alla volta. Tutto è linea, in un cerchio immenso.

Luce

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