Mi si nota di più se non vengo. A cosa si ribellano gli studenti che dicono no all’orale di Maturità

“Il meglio è il nemico del bene”. La frase di antica saggezza popolare, amata anche da Voltaire, forse basterebbe a riassumere tutta la vicenda dei ragazzi e delle ragazze – otto in tutto, tre nel 2024, cinque quest’anno – che hanno deciso di rifiutare la valutazione della prova orale dell’Esame di Stato. Promozione agognata, sospirata, sfiorata, raggiunta con la sufficienza, a pelo. Ora, in qualche modo, sospesa. Il Ministro dell’Istruzione Valditara ha deciso di rispondere con fermezza: minaccia di bocciatura per i futuri protestandi-maturandi e ripristino del monito originario.
Maturità, l’esame è quello: crescere. Ma è difficile crescere, se a mancare sono le condizioni. Un albero con le radici avvizzite non dà frutti. E, non a caso, il Candido di Voltaire prima studia, poi vive, infine coltiva il suo orto. Scopre così che ciò che il maestro Pangloss – inguaribile ottimista – gli voleva insegnare non regge alla prova della realtà: la perfezione è un ideale, e come tale irraggiungibile. Un po’ più di Voltaire, un pizzico di sana disillusione. Servirebbe togliere, almeno in senso figurato, il voto migliore e quello peggiore. Liberare i ragazzi dalla gabbia del rendimento. Forse disillusi, a ben vedere, lo sono già: chi non eccelle, chi non primeggia, si allontana dalla reggia del merito.
Una protesta che interrompe l'automatismoDeduzioni che sfuggono alla logica lineare e alla razionalità ottimista. Ma che rimano perfettamente con il nostro tempo: accelerato, performante, instabile. Certo, quello che i ragazzi e le ragazze, chi con idee più chiare chi meno, dichiarano di voler mettere in discussione è un intero modello educativo. “Siamo numeri”, dicono. Il gesto del non presentarsi all’orale, allora, più che una fuga, è un modo per esistere. Per interrompere un automatismo. Come mettere un sassolino in un ingranaggio. Un problema prettamente pedagogico, quindi? La necessità di una riforma scolastica? La via più breve non sempre è la migliore. No, qua c’entrano anche la società, la cultura.
“Essere visti” nell’assenzaRosapia Lauro Grotto, docente di Psicologia dinamica all’Università di Firenze e psicoterapeuta, legge il gesto proprio così: non come una protesta strutturata, politicizzata, ma come “un’operazione spontanea, non violenta, dentro le regole, che segnala un malessere profondo”. Un tentativo di soggettivazione dentro un sistema che non lascia spazio: “Sono visti molto più così, nella loro assenza, che nella presenza. È da lì che passa qualcosa. Una crepa da cui filtra una domanda potente, che non possiamo permetterci di ignorare”. Una domanda, però, che interroga gli adulti – genitori, insegnanti, istituzioni – prima ancora dei ragazzi. Il compito evolutivo dell’adolescenza è “capire vagamente chi sei” per poter accedere all’età adulta. Ma come si fa, se manca uno specchio relazionale? “La società contemporanea consente molteplici modi di essere, ma non offre spazi di feedback: non c’è tempo, non c’è presenza, non c’è attenzione. E quella riflessione – sottolinea Lauro Grotto – non nasce nella mente isolata nel vuoto, ma nel confronto con un altro. Con una guida esperta, con un adulto realmente interessato”.
Non basta l’empatia: serve una nuova pedagogiaI ragazzi non cercano solo conferme scolastiche, ma risposte identitarie. E qui emerge un nodo psicosociale profondo: la fragilità dell’equilibrio narcisistico tipica della nostra epoca. “I giovani in terapia – racconta Lauro Grotto – mi parlano spesso di questa spinta incoercibile a primeggiare, a sopravanzare l’altro a ogni costo. Come se fosse una pulsione istintiva, non governabile. Un bisogno continuo di conferme che si intreccia con un contesto carico di ansia, sensi di colpa, paura di non bastare. Il disinteresse degli adulti, il silenzio dei contesti educativi, trasmettono un messaggio chiaro: non vali il mio interesse”. Accanto alla dimensione puramente psicologica, c’è quella pedagogica. Non basta modificare le modalità di valutazione. È il metodo che deve essere interrogato: il modello pedagogico. L’enfasi ossessiva sulla performance ha generato un sistema che, dimenticandosi di educare, si limita a selezionare. Non c’è accompagnamento, c’è solo misura. “Fare dell’eccellenza l’unico obiettivo dell’educazione è una modalità deviante – afferma Lauro Grotto – perché oscura completamente lo sforzo di chi, partendo da condizioni difficili, arriva alla sufficienza. Un traguardo a volte più significativo di chi eccelle partendo da un contesto privilegiato”.
Il sapere che divide, l’apprendere che unisceLa “pedagogia dell’eccellenza” – come lei la chiama – ha effetti concreti e gravi: “Disarticola la cooperazione all’interno delle classi”, frantuma la dimensione di solidarietà, e cancella il senso del gruppo come risorsa. “Oggi chi è bravo non sente più di esserlo per il gruppo, ma contro gli altri. Il sapere diventa un bottino personale, da proteggere, non da condividere. Ma l’apprendimento autentico è sempre collettivo”. Secondo Lauro Grotto, e un gran numero di studi in materia, infatti: “La creatività migliore nasce da menti che si legano, non da solitudini performative. Il pensiero innovativo emerge dove esiste scambio, fiducia, tempo condiviso”. Per questo, specifica Lauro Grotto, la risposta non è solo una maggiore empatia. Serve un ripensamento radicale delle condizioni dell’apprendere. Restituire senso all’esperienza. “Anche i contenuti migliori vengono travolti da un’esperienza di apprendimento cattiva. Se non c'è un buon clima, uno spazio relazionale, i contenuti si perdono”. E, infine, la questione della valutazione. Che non è mai neutra, ma tocca il cuore dell’identità: “Il primo fondamento della pedagogia dovrebbe essere che non si valutano le persone, ma le prove. Una regola aurea: semplice e rivoluzionaria. Lo sguardo e la parola giudicante sulla persona – lei è inadeguato, lei non è abbastanza – feriscono in profondità. Spiegare con rispetto dove una prova manca, cambia tutto. Soprattutto: restituisce la consapevolezza e toglie l’umiliazione”.
Una mossa che mette gli adulti alla provaGli studenti si sono presentati, hanno atteso il loro turno, hanno detto: “No, grazie”. Una forma estrema di difesa, e insieme di affermazione. Privati di volto, l’unica via per essere visti è sottrarsi. Farsi crepa, vuoto, rumore bianco. Un gesto che non travalica le regole, non viola il campo, non rompe il patto. Si inserisce perfettamente nel quadro normativo. Sta dentro il gioco. Anzi, lo espone dall’interno. Forse è proprio questa la riflessione che ci lasciano le “assenze-presenti” dei ragazzi. Se “giocano” secondo le regole scritte dagli adulti, e oggi quegli stessi adulti le giudicano sbagliate o inaccettabili, allora, con il loro gesto, stanno compiendo l’unica mossa davvero astuta: dimostrare – con il gioco stesso – che quel gioco non funziona più. Così facendo, non si sottraggono alla maturità. La rilanciano. E, magari più di quanto possa apparire, mettono gli adulti alla prova della loro.
Luce