Nel basket femminile si vince, ma la visibilità resta un privilegio maschile

È proprio vero: c’è canestro e canestro. Non tutti i tiri valgono uguale. Ci sono quelli da tre, da due, da uno. E quelli che si perdono nel nulla. Quelli “rosa”, tendenzialmente, fanno parte di questi ultimi. In questi giorni, però, il basket femminile è finalmente protagonista. La Nazionale ha centrato un risultato storico: terzo posto e medaglia di bronzo contro una temibilissima Francia. A partire dalle vittorie contro Slovenia, Serbia e Lituania nella fase a gironi, passando per il successo contro la Turchia ai quarti, le Azzurre si sono “arrese” – per appena due punti – solo al Belgio, poi laureatosi campione d’Europa. Senza demeritare. Anzi. Si è vista un’Italia agguerrita, davvero squadra, capace di un gioco corale.
L’entusiasmo delle Azzurre, e del tecnico Capobianco, ha infiammato anche Bologna. Poco lontano dal PalaDozza, dove si giocava la fase a gironi, ai Giardini Margherita è andata in scena la 43ª edizione dell’omonimo torneo. Venerdì 20, tra il pubblico, anche le nazionali Olbis Futo Andrè, Matilde Villa e Mariella Santucci – bolognese classe ’97, che ai “Gardens” ha giocato a lungo e oggi calca i campi dell’Eurolega con la Reyer Venezia.
Santucci, protagonista dell’Europeo appena concluso, ci racconta: “Quando ero a Toledo, negli Stati Uniti, avevamo 4.000 abbonati. Numeri che in Italia non si vedono nemmeno nella massima serie. Ma non è solo questione di numeri: lì c’è un team che segue gli atleti e le atlete a tutto tondo, anche sui social, e un marketing sportivo fortissimo. Le giocatrici vengono sponsorizzate singolarmente. Non esiste la distinzione ossessiva tra maschile e femminile: tifi la squadra, punto”.
Non è la prima volta che ci si interroga su cosa valga davvero la visibilità nello sport femminile, non solo in Italia. A inizio giugno, sulle pagine di Luce!, si sottolineava come la finale femminile del Roland Garros fosse stata relegata a un orario pomeridiano, a differenza della controparte maschile in prima serata. Cambiano gli sport, ma la musica – o, meglio, la copertura – resta la stessa: impari.

E proprio per questo, una domanda sorge spontanea: perché Sky Sport ha scelto di trasmettere solo la finale maschile del Torneo dei Giardini Margherita? Stesso campo, stessa passione, pubblico simile (oltre mille persone già alla prima serata femminile, tremila per la finale). Ma un solo torneo finisce sugli schermi. “Ci dispiace – commenta Santucci – anche perché i Giardini hanno fatto tanto per noi. Nel femminile, devi sempre chiedere. Niente è scontato né spontaneo. Devi dimostrare, devi meritarti tutto. Mentre per i maschi... è automatico”.
Un automatismo che si riflette ovunque. Nel trattamento economico, ad esempio: “Sì, io vivo di basket. Ma serve comunque un piano B, perché non è uno stipendio da cui puoi pensare di essere sistemata a vita. E questo vale per quasi tutte noi”.
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In Serie A1, il massimo campionato, le giocatrici non hanno ancora lo status di professioniste. “Tecnicamente oggi siamo passate da 'dilettanti' a 'lavoratrici sportive'. Ma non siamo ancora considerate professioniste. Nel 2025, è assurdo. In Francia lo sono, e lì sono tutelate anche sul piano della maternità. Da noi, no. Se rimani incinta perdi tutto: stipendio e campo. Poi, certo, puoi tornare. Ma dopo aver partorito il reintegro non è né automatico né semplice. Se fa notizia quando una società continua a pagarti mentre sei in gravidanza, vuol dire che siamo ancora lontanissime da qualunque tutela reale2.
Il “gender pay gap” è tristemente noto. Negli USA, una giocatrice della WNBA guadagna meno del 2% di un collega della NBA. Caitlin Clark, una tra le più forti in circolazione, ha firmato nel 2024 un contratto da 338.000 dollari su quattro anni. Nello stesso anno, e alla stessa età, Victor Wembanyama, prima scelta al Draft NBA, ha firmato un contratto da 55 milioni. Clark guadagna lo 0,6% del collega.
E in Italia? Le cifre ufficiali non ci sono, ma una stima prudente parla di una differenza di 1 a 8. “È risaputo. Non è niente di segreto. Ma finché non ci sono più squadre, più investimenti, più visibilità, è difficile pensare a un cambio strutturale. Servono anni. Ma qualcosa si sta muovendo, soprattutto grazie ai risultati”.
E proprio i risultati potrebbero essere la leva per cambiare il paradigma. “Il nostro Europeo è stato trasmesso sulla Rai. Lo share della partita contro la Francia è arrivato al 5,3%, più della finale del maschile. Un risultato che parla da solo: la gente ha risposto, ci ha guardate. Basta così poco: se ci fai vedere, poi ti guardano, ti seguono, ti tifano. Il problema è che in Italia la visibilità arriva solo se vinci. Mai prima. Mentre in altri Paesi, o per altri sport, come la pallavolo femminile, il movimento è stato costruito alla base, con investimenti nelle scuole e nei settori giovanili. È da lì che parte tutto ed è da lì che bisognerebbe ripartire anche per il basket femminile”.
Il rischio è che i riflettori durino il tempo di un torneo. “La Nazionale non è la Serie A1 italiana. E il movimento non può crescere se resta composto da sole 11 squadre, come è oggi. Non basta una bella semifinale europea con tanti spettatori: serve visibilità per tutte, per tutti i livelli”.
Eppure, nonostante tutto, Santucci ci crede ancora. “Spero che il prossimo anno anche la finale femminile dei Gardens venga trasmessa. Quest’anno abbiamo fatto tanto con il basket femminile. Noi i risultati li abbiamo portati. Ora tocca a loro. Io, per quel che posso, continuo a lottare. Dentro e fuori dal campo”. Forse è davvero tempo che anche i tiri “rosa” comincino a valere tre punti. Non solo sul parquet o sul tabellone. È finito anche l’overtime: ripartiamo da queste Azzurre.
Luce