Storia della bomba atomica sganciata su Hiroshima: il vero obiettivo degli americani e la bugia di Truman

80 anni fa la bomba atomica
Quando il 6 agosto del 1945 il presidente americano, a bordo del suo yacht, ricevette la notizia, si diede alla gioia. La mattanza diventava, al cospetto dell’opinione pubblica, una esercitazione in laboratorio

Il 6 agosto del 1945 il presidente Harry Truman si trovava a bordo di uno spazioso yacht, munito anche di due pianoforti, di ritorno in America dopo il lungo vertice tra le tre potenze alleate avvenuto in una Germania capitolata. Con un fare assai poco formale, quando ricevette dall’Estremo Oriente la notizia che più attendeva, si diede ad una gioia esternata senza freni. L’ordine era stato eseguito, “Little Boy” aveva colpito Hiroshima e le danze, anche se macabre, potevano pure iniziare.
Nei giorni di Potsdam, fu Churchill, che si trovava lì tra i grandi ancora per poco, avendo perso la maggioranza alla Camera dei comuni, a notare un cambiamento radicale nei modi di comportarsi dell’inquilino della Casa Bianca. Verso i sovietici, in particolare, sembravano finite le consuete cerimonie di rito. Nel corso della conferenza a palazzo Cecilienhof i toni si fecero d’un tratto più bruschi. Il Vicepresidente, che solo ad aprile, e senza alcuna unzione popolare, era diventato il comandante in capo a seguito della morte di Roosevelt, il fatidico 16 luglio appariva su di giri: una comunicazione appena ricevuta, dal segreto laboratorio di Los Alamos, lo avvisava che tutto, nell’esperimento cruciale, aveva funzionato alla perfezione. Immensa dovette risultare perciò, un paio di settimane dopo, la soddisfazione nell’apprendere i ragguagli contabili circa la capacità distruttiva sprigionata dall’ordigno piovuto sulla città portuale giapponese esattamente alle ore 8 e 15 minuti. Ricompostosi, dopo l’esuberanza del momento, Truman pronunciò un discorso alla nazione proprio mentre attraversava l’oceano con la sua “Casa Bianca galleggiante”. Lo sguardo dell’ex giudice di contea, nominato alla carica benché fosse a completo digiuno delle nozioni di diritto, non si sollevò mai dal foglio scritto.
Lo statista del Missouri usò parole di ordinaria follia nell’informare che “la forza da cui il sole trae energia è stata lanciata”. Calibrando euforia ovvero, come egli si esprimeva, una “grande meraviglia” dinanzi allo spettacolo nucleare, e arte retorica della menzogna, ammonì: “Il mondo sappia che la prima bomba atomica è stata sganciata su una base militare”. L’ingiunzione di non lasciar trapelare la verità sulla immane strage di civili fu presto impartita dall’amministrazione ai vertici dell’esercito. L’immensa mattanza, da Truman decretata in estate, diventava, al cospetto dell’opinione pubblica, una semplice, quanto istruttiva, esercitazione in laboratorio. “Abbiamo speso – scandì il 33° Presidente – più di due miliardi di dollari per la più grande scommessa scientifica della storia”. Lo spettrale paesaggio di morte, per il leader supremo della civiltà occidentale, era nient’altro che il giulivo compimento di una scoperta scientifica. Sebbene un tantino costosa, la fisica riempiva di gioia perché mostrava di quali prodigi mondani fossero capaci “le grandi menti della scienza”.
In Italia abboccarono a questa narrazione distorta sia l’Avanti (“L’ultimo dono della scienza all’umanità”) che l’Unità (“Al servizio della civiltà”). Ad afferrare invece prontamente il senso della tragedia fu Luigi Sturzo (“L’idea della bomba atomica sarà da oggi ossessionante nella politica internazionale”). Le sinistre apriranno gli occhi il 18 marzo del 1949, quando, in un dibattito fluviale durato 58 ore, fu stabilito l’ingresso nel Patto Atlantico. Anche allora la mistificazione divenne uno strumento di giustificazione delle scelte di campo. De Gasperi, infatti, rassicurò le Camere in questi termini: “Nessuno ci ha mai chiesto basi militari e, d’altra parte, non è nello spirito del patto atlantico, di pura assistenza fra Stati liberi e sovrani, di chiederne e concederne”. Come no. Per l’appunto la dipendenza degli Stati satelliti a sovranità limitata, e non il risparmio delle giovani vite dei marines, era il disegno strategico che coltivava il contadino fuggito dalla terra per occupare lo Studio Ovale. Il suo cinico ringraziamento alla scienza era un’esca per scansare le atroci responsabilità della politica. Con i suoi elogi del sapere che si oggettiva nelle bombe, proprio i cervelli in fuga dalla Vecchia Europa salivano di fatto sul banco degli imputati.
La loro riservata missione tra le rocce del New Mexico era, in origine, quella di arrivare prima di Hitler alla meta. E però, con la Germania nazista annientata, l’atomica era stata sganciata su un popolo rassegnato, per giunta ormai sul punto di alzare bandiera bianca in segno di resa incondizionata. L’Imperatore nipponico a luglio aveva già chiesto l’immediato cessate il fuoco a Stalin, che aveva informato subito gli Yankee. Il proclamato desiderio di rendere più celere la conclusione delle ostilità nel Pacifico poco c’entrava dunque con la decisione catastrofica dello sterminio deliberato. Il vero obiettivo del ricorso americano alla potenza nullificante dell’atomica era quello di impedire la penetrazione sovietica nella regione e di rimanere, con le proprie truppe, la sola potenza dominante in Asia. Enfatizzando il significato costituente della bomba realizzata con il Progetto Manhattan, e assunta prontamente quale indice di un “nuovo e rivoluzionario avanzamento in termini di forza distruttrice”, Truman non soltanto archiviava una inimicizia totale con il nazifascismo, ma ne avviava una del tutto nuova e non meno radicale. Contro l’internazionalismo proletario dell’Armata Rossa, egli confidava nella vantaggiosa asimmetria, riscontrabile nella disponibilità della valigetta atomica, per imporre la più favorevole distribuzione del potere mondiale.
Tuttavia il monopolio americano nella capacità di infliggere il primo colpo devastante si infranse nel 1949, con l’RDS-1 sovietica, e presto incominciò un precario armistizio poggiante sulla complessità e precisione degli armamenti: alla supremazia nucleare, cioè all’attitudine di distruggere l’altro senza alcun timore di rappresaglia, si affidava la condivisione di un equilibrio del terrore. L’aspettativa di una lunga tregua poggiava sulla folle credenza che le armi più sofisticate (grazie alla “distruzione reciproca assicurata”) rappresentassero un freno agli appetiti funesti di un conflitto potenzialmente suicida. Con la disposizione di radere al suolo Hiroshima e Nagasaki, Truman aveva in realtà minato l’unica alternativa alla guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, quella Carta dell’Onu firmata proprio nel giugno del 1945.
Alla progettazione di un nuovo ordine mondiale di pace e cooperazione, la superpotenza a stelle e strisce preferiva una corsa alla Bomba in grado di annientare la civiltà stessa. Venne così edificato un sistema internazionale con una forte radice anarchica appena mitigata dalla deterrenza. In esso, come dice John Mearsheimer, spicca “l’assenza di un 113 internazionale” per cui, nella carenza di una centralizzazione efficace degli strumenti coercitivi, la polizia mondiale è affidata al principio alquanto malfermo della “mutual assured destruction”. Del resto, da un capo di Stato che aveva appreso l’abc della giurisprudenza solamente ai corsi serali della Kansas City Law School, era davvero troppo aspettarsi la piena comprensione del plusvalore politico della civiltà del diritto.
l'Unità