Caso Moro, il giudice Narducci smonta la caccia ai fantasmi di via Fani

Lo studio tra giustizia e verità
Dopo 5 processi, oltre 50 inquisiti e condanne infondate, per la vicenda dell’esponente della DC la magistratura insegue colpevoli mai identificati. E, nonostante l’assenza di nuovi elementi, l’azione giudiziaria prosegue

A mezzo secolo di distanza dalle istruttorie e i maxi processi condotti contro i militanti della lotta armata, è ormai maturo il tempo di sottoporre le sentenze di giustizia al vaglio critico della storia. Il tempo trascorso, l’importante mole documentaria, le ulteriori testimonianze orali e gli studi storici più seri ci consentono di potere valutare se «la verità giudiziaria resista, e in quale misura, alla straordinaria forza della verità storica». Su Questione giustizia di questo mese di giugno, rivista di Magistratura democratica, è apparso un importante studio in due puntate di Pino Narducci, presidente della sezione riesame del Tribunale di Perugia, che già in passato si era cimentato su vicende giudiziarie che hanno riguardato i movimenti sovversivi degli anni Settanta.
Il lavoro di Narducci smonta uno dei luoghi comuni più diffusi, agitato polemicamente dagli esponenti della dietrologia contro coloro cercano di fare lavoro storico: ovvero che questi ultimi si trincererebbero dietro le sentenze perché «i processi hanno detto tutto quello che c’era da dire». Basti pensare alle divergenze tra le prime ricostruzioni processuali sulla dinamica dell’azione di via Fani e i successivi lavori storici che hanno precisato nel dettaglio la preparazione logistica, il numero dei singoli partecipanti, la dinamica dell’azione, il percorso di di fuga. Tre anni fa, nel volume La polizia della storia, avevo analizzato le cinque istruttorie e i quattro processi che hanno contraddistinto l’attività della magistratura nella vicenda del sequestro Moro. In quello studio indicavo in ventisette il numero delle persone condannate per il sequestro, l’uccisione della scorta e l’omicidio finale del presidente del consiglio nazionale della Dc, fatti avvenuti tra la mattina del 16 marzo 1978 e l’alba del 9 maggio successivo. Una ventottesima persona era stata assolta perché all’epoca dei processi non erano emersi elementi di prova nei suoi confronti. In realtà, solo 16 di queste risultavano con certezza direttamente coinvolte nella vicenda, le altre undici non avevano partecipato né sapevano del sequestro.
Il lavoro di scavo e analisi realizzato da Pino Narducci ci dice che le persone sanzionate furono trentuno. Ventisette condannate sia per i fatti di via Fani (uccisione della scorta, tentato omicidio di Alessandro Marini e sequestro di Aldo Moro) che per l’omicidio in via Montalcini, gli altri quattro riconosciuti responsabili solo per due dei quattro delitti principali. Se all’elenco dei condannati – scrive ancora Narducci – si aggiungono gli imputati prosciolti in istruttoria o assolti nei processi, «scopriamo che la magistratura ha complessivamente inquisito oltre 50 persone, forse anche più. Una cifra decisamente spropositata». Questo ci dice che l’attività inquisitoria della magistratura e delle forze di polizia fu imponente, seppur inizialmente imprecisa, anche se la martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà» ha offuscato negli anni successivi questo dato significativo. Non ci fu affatto una inazione o distrazione, tantomeno episodi di clemenza pattuita sulla base di una rinuncia a verità scomode o indicibili. Gli unici sconti di pena concessi furono il risultato della legislazione premiale che venne introdotta e applicata a quegli imputati che collaborarono nei processi o si dissociarono con dichiarazioni di abiura che prendevano le distanze dalla loro militanza passata.
Il lavoro di Narducci – dopo aver scandagliato per intero le sentenze di ogni grado dei cinque processi – coglie le numerose incongruenze presenti. I reati principali contestati nei giudizi riguardavano l’assalto in via Fani con l’omicidio plurimo degli agenti della scorta di Moro e i vari reati corollario, il sequestro vero e proprio dello statista democristiano e infine la sua uccisione. Peraltro Narducci contesta il ricorso all’aggravante della premeditazione della uccisione dell’esponente Dc, che si dimostra storicamente infondata o comunque valida solo a partire da una determinata data: il 15 aprile con il comunicato numero 6, che annunciava la fine del processo del popolo e la sentenza di condanna. Comunicato smentito in realtà dalla ricerca continua di una interlocuzione politica e scambio di prigionieri (le lettere di Moro inviate dopo quella data e la telefonata di Moretti del 30 aprile), o ancora la riunione dell’esecutivo di colonna dell’8 maggio in via Chiabrera, che di fatto sancisce la decisone reale della uccisone di Moro, predisponendone la logistica.
Chi era direttamente coinvolto nella gestione quotidiana del sequestro non per forza era in via Fani. Nonostante ciò, nelle prime sentenze di condanna emesse negli anni 80, questa differenza non viene fatta. Si applicano «singolari principi del concorso di persone nel reato, i giudici ritennero che l’adesione al programma politico-militare della “campagna di primavera” fosse elemento sufficiente per condannare i due brigatisti per tutti i reati contestati ai veri protagonisti della operazione di via Fani […] In altri termini, sembra che il ragionamento dei giudici sia stato quello secondo cui la militanza nelle BR, cioè la condotta di partecipazione alla banda armata prevista dal Codice penale, permetteva di addebitare al brigatista qualsiasi delitto commesso da altri membri della organizzazione, anche quelli che ignorava sarebbero avvenuti e rispetto ai quali, in ogni caso, non aveva fornito alcun aiuto o supporto». Cosa che non avverrà più nei processi compiuti nella seconda parte degli anni 90, quando si torneranno ad applicare i canoni della responsabilità personale a discapito di quella «responsabilità di posizione» utilizzata nelle sentenze del decennio precedente.
Il reato di concorso e l’appartenenza alla banda armata verranno puniti con criteri meno estensivi e maggiormente conformi al dettato costituzionale. Diversi tra quei 27 condannati nei primi processi, Moro uno-bis e Moro ter, non avrebbero subito la stessa pena o sarebbero stati prosciolti se giudicati nel decennio successivo. Nel suo studio Narducci sottolinea la sconcertante condanna di 25 imputati ritenuti colpevoli del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo. La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini.
Queste nuove acquisizioni storiche non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario, in Procura pendono nuovi filoni d’indagine (su alcuni di questi vi sarebbe la richiesta di archiviazione), ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa (uno dei primi grossolani errori commessi dalla prima sentenza del Moro uno-bis, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani). Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver inquisito 50 persone, condannato 11 totalmente estranee al sequestro e altre coinvolte solo in parte, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa.
l'Unità