Fine vita, anche chi non si muove ha diritto a morire

La pronuncia della Consulta
Mentre il governo elabora la propria proposta per dare all’Italia una legge sul “fine vita”, nella Sala Gialla della Consulta si tenta una nuova fuga in avanti

Un’udienza pubblica attesa, partecipata. Mentre il governo elabora la propria proposta per dare all’Italia una legge sul “fine vita”, già molto discussa, nella “Sala Gialla” della Consulta si tenta una nuova fuga in avanti. Le postazioni sono piene, rappresentazione plastica della portata di quanto di lì a poco si discuterà: per la prima volta, infatti, i giudici costituzionali sono chiamati ad esprimersi sulla legittimità dell’articolo 579 del Codice penale, quello che oggi punisce l’omicidio del consenziente. In parole semplici, l’eutanasia. Una norma che risale agli anni Trenta del secolo scorso, al Codice Rocco, come si ricordava ieri su queste pagine.
Il nodo si potrebbe spiegare così: se un malato possiede tutte le condizioni previste dalla sentenza 242 del 2019 della Corte Costituzionale – ovvero quella che di fatto ha concesso, in certi casi, l’accesso al suicidio assistito – ma non può muoversi e dunque si trova impossibilitato ad autosomministrarsi il farmaco, ha comunque diritto a morire? La risposta al momento è negativa e da qui nasce il contendere. Perché, è il ragionamento, in questo modo si profilano due trattamenti diversi per situazioni del tutto simili, operando una discriminazione fondata sulla mobilità motoria residua del soggetto. Questa almeno è la tesi di Filomena Gallo, segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni, colei che ha presentato un ricorso d’urgenza al tribunale di Firenze sul caso di Libera (nome di fantasia, da lei scelto a tutela della sua privacy) con cui chiede che il medico di fiducia della donna possa somministrarle il farmaco.
Così si è arrivati alla Consulta. Libera – che ha seguito l’udienza da remoto – è una donna toscana di 55 anni, affetta da sclerosi multipla progressiva e mantenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Possiede tutti i requisiti per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, ma non è in grado di assumere autonomamente il farmaco letale: è completamente paralizzata dal collo in giù, ha difficoltà nel deglutire (si nutre di cibi semi-liquidi) e dipende dai suoi caregiver per tutte le attività quotidiane, evacuazione compresa. E la richiesta ultima del suo team di avvocati, coordinati da Gallo, è questa: non cancellare l’art. 579, ma interpretarlo, ed escludere l’applicazione della punibilità dell’omicidio del consenziente negli stessi casi in cui la Consulta l’ha esclusa per il suicidio assistito (art. 580). Oggi, infatti, il medico che si sostituisse alla persona malata nel somministrarle il farmaco rischierebbe da 6 a 15 anni di reclusione. Incriminazione che sarebbe contrastante con più norme della Costituzione – gli artt. 2,3,13 e 32 – e che determinerebbe il paradosso per cui il diritto all’autodeterminazione sarebbe negato proprio ai pazienti più gravemente ammalati. Tra i quali, comunque, non tutti la pensano come Libera.
A sedere tra i banchi c’erano infatti anche Maria e Maria Letizia, due donne affette da patologie irreversibili che hanno chiesto di essere ammesse nel processo per dire un no netto all’eutanasia. Ad assisterle, gli avvocati Mario Esposito e Carmelo Leotta. Che assieme a quelli dell’Avvocatura dello Stato – che difendono il punto di vista del governo – hanno spiegato le ragioni della loro opposizione: l’impossibilità di stabilire se davvero la persona voglia morire fino alla fine, la differenza tra aiuto al suicidio e omicidio del consenziente (le valutazioni normative sul disvalore dei due fatti sono diverse, gli oggetti della tutela sono diversi). Ancora, l’idea che il diritto alla vita sia intangibile. E l’impossibilità da un lato di permettere al diritto di legittimare la morte, dall’altro di stabilire che il divieto di uccidere abbia eccezioni.
E in ultimo, sottolinea l’Avvocatura: il principio di autodeterminazione non sottende un diritto a morire. E la pronuncia del giudice civile non può avere carattere vincolante per il giudice penale. Tanti, insomma, i fattori da considerare. La sentenza della Corte è prevista prima di settembre, sottolinea il team di avvocati di Libera, che ha sollecitato i giudici visto il progressivo peggioramento delle condizioni della donna. Alla Consulta c’era anche il suo medico, Paolo Malacarne: “Libera sta soffrendo e insieme troveremo il modo di lenire la sua sofferenza”, ha detto. A quel punto gli chiediamo: anche nel caso in cui, se la Corte dovesse pronunciarsi in senso negativo, fosse costretto a un atto di disobbedienza civile? Rischierebbe? “Sì, certo. Anche in quel caso”.
l'Unità