Gli stupidi attacchi a Landini dopo il referendum: chi lo critica non conosce Marx

Gli strali contro la CGIL post-referendum
Chi critica Landini per il mancato quorum non conosce Marx. Sarebbe troppo comodo scegliere le sfide che si possono vincere facilmente. 15 milioni di disobbedienti hanno risposto all’appello e hanno riacceso la sfida dell’antagonismo

Visto alla luce della razionalità politica normale, quello di Landini è stato semplicemente un azzardo. La sua parola chiave, “rivolta”, come pure l’evocazione più sospetta, “la strada”, a chi ha la mente sempre incollata ai canoni di una stagione ormai trascorsa provoca una specie di allucinazione tardo-sorelliana. Ma, in una epoca disordinata, la ragione politica classica è ovunque troppo frantumata per risultare d’aiuto. I suoi codici, solo in apparenza sobri e persuasivi, si ripetono come dialetti incomprensibili. Agire e valutare le cose sulla base delle forme esplose è, questo sì, un atto di irrealismo.
In un mondo dei sogni popolato da partiti amici, con una ideologia definita e un solido radicamento sociale, innervati da strutture di rappresentanza perfettamente funzionanti, guidati da autorevoli classi dirigenti espresse nelle dinamiche conflittuali della società, l’appello al cielo del segretario della Cgil andrebbe liquidato come indice di un inguaribile spirito minoritario, che non lascia dietro di sé altro che il sordo rumore della batosta. Peccato, però, che un simile sistema, frutto di diritti di cittadinanza fruibili e di produttive modalità di antagonismo con le aziende, non esista più da lustri e niente giustifichi un perpetuo inno alla moderazione. Sigle, attori, simboli, linguaggi con una remota capacità mobilitante sono ridotti a dei puri simulacri. Si sa che Marx non amava le insubordinazioni premature, e però, quando il movimento prendeva il via, non si tirava certo indietro.
Mettendo al bando ogni lamentela sul finale prevedibile di uno scatto attivistico precoce, egli scrisse una pagina parecchio istruttiva sul senso delle ritirate annunciate: “Sarebbe assai comodo fare la storia universale, se si accettasse battaglia soltanto alla condizione di un esito infallibilmente favorevole. D’altra parte, questa storia sarebbe di natura assai mistica se le ‘casualità’ non vi avessero parte alcuna. Queste casualità rientrano naturalmente esse stesse nel corso generale della evoluzione e vengono a loro volta compensate da altre. Ma l’accelerazione e il rallentamento dipendono molto da queste ‘casualità’ tra cui figura anche il ‘caso’ del carattere delle persone che si trovano da principio alla testa del movimento”. Era evidente che il referendum avrebbe esposto l’organizzazione ad uno scontro tutt’altro che dallo sbocco “infallibilmente favorevole”. Lanciare il guanto dieci anni dopo l’approvazione del Jobs Act, e quindi senza il vantaggio tattico della radicalizzazione su un tema scottante, affidava l’urto ad “una casualità”. Se all’inconveniente di una frizione raffreddata dal tempo si aggiunge che gli unici soggetti ad incassare potenziali benefìci dalle urne, i lavoratori migranti, non disponevano di diritto di voto, si coglie tutta la difficoltà di vincere una contesa i cui sviluppi sono determinati dal “caso”.
La sollecitazione del governo a disertare d’imperio le cabine ha poi reso impossibile il raggiungimento del quorum. Dunque non resta che infierire sul “carattere delle persone alla testa del movimento”, colpevolmente scivolate in una trappola? Nient’affatto. La circostanza che la validità della consultazione fosse diventata un lontano miraggio ha conferito un valore politico ancora più pregnante alla decisione di quasi 15 milioni di cittadini (significativa è la partecipazione dei giovani) di sfidare il boicottaggio presentandosi ugualmente ai seggi che l’esecutivo, intriso di cultura dei “ludi cartacei”, considerava territorio alieno. Nelle sezioni elettorali si è celebrato un plebiscito alla rovescia. Pur consapevoli di prender parte ad un rito destinato alla nullità, milioni di votanti hanno ritenuto comunque utile far timbrare il loro certificato. Consegnando le proprie generalità in una sorta di schedatura di massa che li classificava tra i disobbedienti, hanno inteso rimarcare che non temevano di contravvenire all’ordine di starsene a casa impartito dal potere, il medesimo che sforna minacciosi decreti sicurezza e sostiene le operazioni orientali di Netanyahu. L’impolitico Landini ha scomodato quote di astenuti e di delusi cronici, in prevalenza abitanti delle periferie, i quali hanno indotto la destra a gettare la labile maschera sociale.
Il sindacato, attraverso i quesiti sulle condizioni di vita dei lavoratori, ha in qualche misura superato il limite costante di una sinistra ancorata al “ceto medio riflessivo”: quello assuefatto al chiacchiericcio televisivo di un Gramellini, all’opera omnia di un Cazzullo, al conformismo dell’opinionista-tipo dei talk di La7. Riportando nella sfera pubblica i brutti, sporchi e cattivi che magari non si afflosciano sulle seggiole della Repubblica delle idee (le solite: guerra infinita in nome degli ideali occidentali, “regime chance”), la Cgil ha mostrato che la strettoia per il recupero di rappresentanza rimane tuttora aperta. Perciò è riduttivo archiviare l’8 giugno come mera cronaca di una velleitaria fuga in avanti che è culminata in un ripiegamento scontato. Non si è trattato mica di un ulteriore tassello dell’oramai irreversibile crisi della democrazia. All’opposto, è emersa una – embrionale quanto si vuole – prova di controegemonia alla quale il trenta per cento degli elettori ha risposto in modo incoraggiante. Con la disponibilità all’impegno è affiorato un segno di fiducia nella ripresa dell’agire collettivo. Spaventa la parolaccia “rivolta”? Pazienza, in una fase di movimento nascente le metafore non possono essere gentili.
l'Unità