Laura Santi e Martina Oppelli, quando scegliere di morire non è una sconfitta

La battaglia sul fine vita
Mentre il governo elabora una legge lontana dal sentire dei cittadini, sfuma la prospettiva del diritto a un fi ne vita dignitoso. E invece serve una proposta di pietas che metta al centro la persona e le relazioni di cura

La proposta di legge sul suicidio assistito, in attuazione della sentenza n. 242 del 2019 della Corte Costituzionale, segna una distanza con il sentire dei cittadini espresso in modo molto lucido, commovente, umano, da due donne, Laura Santi e Martina Oppelli, che in questi giorni hanno attuato il suicido assistito lasciando messaggi inequivocabili.
Laura Santi è deceduta nella sua casa a Perugia, Martina Oppelli di Trieste avrebbe voluto fare lo stesso ma si è dovuta recare in Svizzera per attuare le sue volontà, perché la sua domanda è stata rigettata per ben tre volte. Così si è espressa: “Gentili parlamentari e concittadini tutti, non so se vi ricordate di me, sono Martina Oppelli. Più di un anno fa feci un appello a tutti voi affinché venisse promulgata e approvata una legge, una legge sensata che regoli il fine vita, che porti a un fine vita dignitoso tutte le persone, malate, anziane, ma non importa, prima o poi tutti noi dobbiamo misurarci con la fine della nostra vita terrena. Sì, questo appello è finito nel vuoto […] Ogni dolore è assoluto e va rispettato”, “fate una legge sensata”. Laura Santi ha lasciato il seguente messaggio: “Ho potuto vincere la mia battaglia solo grazie agli amici dell’Associazione Luca Coscioni, seguiteli e seguite i diritti e le libertà individuali, mai così messi a dura prova come oggi. Sul fine vita sento uno sproloquio senza fine, l’ingerenza cronica del Vaticano, l’incompetenza della politica. Il disegno di legge che sta portando avanti la maggioranza è un colpo di mano che annullerebbe tutti i diritti. Pretendete invece una buona legge, che rispetti i malati e i loro bisogni. Esercitate il vostro spirito critico, fate pressione, organizzatevi e non restate a guardare, ma attivatevi, perché potrebbe un giorno riguardare anche voi o i vostri cari. Ricordatemi come una donna che ha amato la vita”.
Credo che dobbiamo essere molto grati a queste due donne, alle loro testimonianze, al loro travaglio. Nei video ci hanno rappresentato come dalle loro esperienze professionali, giornalista Laura Santi, architetto Martina Oppelli, si è venuta determinando una situazione sanitaria, esistenziale di dipendenza assoluta, assai complessa, di cui ci hanno fatto partecipi facendoci comprendere come l’amore per la vita contiene la morte, specie quando la sofferenza è intollerabile, “il dolore è assoluto e va rispettato”. La distanza è tra la profondità dell’umano sentire e il linguaggio con cui viene espresso, rispetto al tono e all’atmosfera di una politica che non pare in sintonia con i cittadini, non è umile ed è incapace di confrontarsi e di imparare dagli altri Paesi, Svizzera, Olanda, Belgio per citarne alcuni nei quali le norme sono in vigore da anni e sono state in grado di garantire l’autodeterminazione delle persone e di evitare forme di abuso. Paesi dove chi può economicamente si reca.
Siamo in un mondo connesso. Da noi sembra prevalere una visione ideologico-religiosa, paternalista, che si ammanta di un linguaggio burocratico, distante e autoritario rispetto all’esperienza, ai vissuti e ai bisogni delle persone. Sembra che la legge venga fatta, con molto ritardo, in modo non convinto, quasi un fastidio di cui si sarebbe fatto volentieri a meno. Pare che la si voglia allontanare dall’ambito esistenziale e medico per entrare in un’altra sfera assai distante, quasi irraggiungibile, giuridico-etico religiosa? La vita, ce lo hanno detto con chiarezza Laura Santi e Martina Oppelli, contiene la morte, e questa inizia con la vita stessa, sia biologicamente che psichicamente. È forse di questo che abbiamo, comprensibilmente, paura. La morte riapparsa sulla scena pubblica con il Covid, è di nuovo da nascondere e negare. La vita appartiene alla persona, così la morte. L’autodeterminazione nella morte terrena è il completamento di un processo, di un percorso di vita.
Quando invece la morte viene configurata e trasformata in una tragedia assoluta contrapposta alla vita, in qualunque forma e condizione, ciò esprime un tentativo di negazione della morte e si traduce in un’inevitabile sconfitta. Cioè una posizione che non accetta le perdite e quindi i processi mortali come un naturale determinarsi nelle vicende umane di tutti e di ciascuno. La morte è tra noi, sempre. Le religioni e le filosofie sono modi per elaborare questo vissuto, questo umano destino comune e per cercare di accogliere e dare un senso alle sofferenze mediante la presenza e le relazioni. La medicina è al servizio dell’uomo, nella vita che contiene, salute, malattia, follia e morte. Lo sappiamo come psichiatri ogni giorno alle prese con il suicidio, le idee, le minacce, i piani e gli atti. Comunicazioni inquietanti, preoccupanti di persone alla ricerca di un senso, di una speranza da affrontare senza pregiudizi per uscire dal dolore mentale insopportabile, dalla perdita di ogni speranza, dall’anomia. E quando la suicidalità diviene continua, aiutare chi è sempre sul confine tra l’essere e non essere, diviene quanto mai difficile e impegnativo. Restare sul filo, essere presenti e cercare di dare ed essere speranza, a volte aiuta, altre no, perché vi è qualcosa di sconosciuto e misterioso che resta individuale, nella profondità e non appare.
La vita appartiene alla persona, alla sua esistenza ed esperienza e con essa interagiscono moltissimi fattori dei quali mai nessun clinico o psichiatra potrà essere a conoscenza e tanto meno controllarli. Non si trova nella psicopatologia ma è nell’inconscio, nell’ambito dell’incerto, dello sconosciuto e del misterioso, intuibile forse con la poesia e l’arte come ci ha insegnato Eugenio Borgna, ma non è inseribile in categorie codificate e percorsi proceduralizzati e strumenti certi. Questo non solo per rappresentare la difficoltà del compito del confronto con la morte, ma anche ai fini della responsabilità professionale. È difficile accettarlo ma il suicidio, la morte, può ridare senso all’intera vita. Tutto questo avviene all’interno della relazione di cura, che è percorsa da vissuti angosciosi, sofferenze subliminali, indicibili, ma comunicabili con lo sguardo, il volto e il corpo, le atmosfere. La morte, il suo fantasma sono nell’aria. Nelle malattie gravemente invalidanti, e a volte lo sono anche quelle psichiche, le prospettive di disfacimento, di sofferenza estrema, di umiliazione e vergogna, di dipendenza estrema, di annientamento trovano nell’idea di avere una propria via da percorrere, di poter nonostante tutto decidere di sé stessi, un grande sollievo, un’idea di libertà e liberazione. La persona coglie l’apertura ad un’altra dimensione, spirituale, di un altro spazio e tempo. Un atavico sentire, il prima della vita terrena e l’intuire comunque un dopo, lascia il segno, il ricordo, cioè ri-cordis, torna al cuore che decide. Non solo in termini razionali, ma ben più profondo e complesso.
Dall’esterno, è difficilissimo capire fino in fondo le dinamiche e il senso di certe scelte. E ciò è tanto maggiore se vi è chi sta accanto, si prende cura, si fa carico di tutto questo che riguarda l’altra persona ma anche se stessi, come singoli professionisti e come equipe. Vi sono team di medici (medicina generale, psichiatri, neurologi, oncologi, anestesisti, palliativisti, medico legali), infermieri, psicologi, assistenti sociali, operatori sociosanitari, assistenti personali capaci di altissime professionalità, di accompagnare le persone e di rispettare le volontà, le convinzione religiose e di vita spirituale di ciascuno. Quindi la legge deve essere incentrata su queste relazioni di cura, prendersene cura, valorizzarle perché entro di esse matureranno le decisioni, della palliazione, della sedazione e del suicidio assistito e domani anche l’eutanasia. Escludere il Servizio sanitario pubblico vuol dire negare valore a tutto questo, ma quel che è più grave significa lasciare sole le persone…arrangiatevi. È quanto di peggio la politica possa fare. Altrettanto grave è pensare ad un comitato etico nazionale o al più, secondo un emendamento, macroregionale che sarebbe distante dalle persone che soffrono e dai team dei curanti.
È invece essenziale che siano in grado di essere prossimi, di dialogare e inter-agire. Un agire tra e insieme, perché le situazioni possano essere conosciute, valutate e le migliori decisioni possano essere prese, maturate in un clima partecipato e solidale con la persona nella chiarezza delle diverse responsabilità. Il che è ben diverso dal mandare la domanda, una richiesta di autorizzazione a Roma e attendere una risposta burocratica. Un distanziamento pericoloso, angoscioso, inutilmente complicato che allontana la legge e la sua applicazione dal sentire delle persone, dalle loro sofferenze. È proprio nella dinamica relazionale tra la persona, i curanti e chi autorizza il suicidio assistito che maturano le decisioni, che vengono composti i conflitti, le inevitabili diverse posizioni intrapsichiche e relazionali e si realizzano le garanzie dei tempi e le tutele rispetto agli abusi. Anche le equipe e i singoli professionisti vanno aiutati dal punto di vista giuridico, medico legale, psicologico. Restare a lungo nelle situazioni di gravissima sofferenza costituisce uno stress molto forte. Occorre sostegno e sicurezza, cercando di risolvere e comporre le contraddizioni, i conflitti, in un clima autorevole e sereno. Serve una cultura dell’accoglienza, di riconoscimento, ascolto non giudicante, di pietas e compassione.
Nel prospettare un comitato etico nazionale, oltre a quanto sopraesposto, pare che la politica pensi al suicidio assistito come una condizione eccezionale, visto che fino ad ora vi sono stati poche situazioni, ampiamente note, come Eluana Englaro, Giorgio Welby, Dj Fabo, in tutto una decina di persone. Ma non è così. In Olanda (con 19 milioni di abitanti), dove la legge è in vigore dal 2001, sono circa 8 mila all’anno. Questo segnala un ulteriore elemento di distanza dai cittadini. Eppure la Regione Toscana e l’Associazione Luca Coscioni hanno indicato la via, facendo un legge che potrebbe essere quella nazionale. Come per il reato di femminicidio, la politica può trovare un unanime punto di incontro e riavvicinarsi ai cittadini. Una “buona legge”, una “legge sensata” hanno implorato Laura e Martina. E ci manca sul tema la riflessione di Grazia Zuffa.
*Direttore Dipartimento Salute Mentale, Ausl di Parma
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