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Solo il sindacato di strada può ridare dignità al lavoro

Solo il sindacato di strada può ridare dignità al lavoro

Democrazia, lavoro e sindacato

Non più un sindacalismo di mestiere, ma un modello solidaristico radicato nei luoghi di lavoro quanto nel territorio. Che si faccia carico della questione dei bassi salari e del reddito di cittadinanza, ma anche di rimettere al centro il diritto alla salute e alla casa

Del sindacato verticale degli anni Settanta si è abbandonata la dimensione democratica e questo, come Pio Galli e Trentin sostenevano, inevitabilmente ha portato a una deriva burocratico istituzionale del movimento sindacale italiano che precipita, senza una discussione vera su quei nodi, negli anni Novanta. Tutto ciò è avvenuto, peraltro, in un contesto che richiedeva una capacità conflittuale rinnovata.

Sarebbe auspicabile una parallela riflessione su quali siano gli strumenti organizzativi per sostenere conflitti anche prolungati, riflessione anche questa solo sfiorata in quel tempo e subito accantonata forse perché si era diffusa la convinzione che la conflittualità sarebbe stata sempre disponibile e al massimo da governare. In un mondo dove il lavoro si è frammentato e impoverito questo ovviamente non è così ma proprio perché non è così il conflitto a partire dalla riuscita degli scioperi era e resta strumento insostituibile del normale agire sindacale. Mettere tra parentesi le sconfitte, non indagarne con cura le ragioni di fondo, non è mai una buona cosa per costruire la ripresa. La riflessione sulla sconfitta referendaria può quindi diventare l’occasione per un bilancio di più lungo periodo e, quindi, finalizzato alla costruzione di una dimensione strategica anche essa di lungo periodo.

C’è certo bisogno di una grande iniziativa, in gran parte già in atto, sulla questione salariale e su un rinnovo adeguato dei contratti di categoria, ma insieme è necessario riflettere su come la crisi politica e culturale dei consigli ci porti a disegnare in maniera diversa dal passato la stessa individuazione dei soggetti essenziali alla costruzione di quel sindacato di strada di cui la stessa campagna referendaria ci ha manifestato la possibilità e la necessità. Trentin proverà a recuperare quella storia di democrazia nel 1993 con il protocollo del 23 luglio inserendo le rappresentanze sindacali unitarie elette dai lavoratori nel modello sindacale italiano. Ma riusciranno ad affermarsi solo nei settori pubblici grazie alla grande intelligenza di Massimo D’Antona che costruirà la legge che regola tuttora la rappresentanza e quindi le relazioni industriali in quel mondo basandole sulla democrazia, sull’ elezione dei delegati e delle delegate come componente essenziale. Nel lavoro privato la diffusione delle rappresentanze elette ha conosciuto storie diverse per tante ragioni – a partire dai rapporti di forza – ma certamente oggi la questione dell’applicazione di un modello democratico partendo dall’articolo 39 della Costituzione si pone come priorità. Del resto, la frattura tra organizzazioni sindacali si può ricomporre solo nella dimensione democratica del voto. Riportare il lavoro alla partecipazione politica richiede una capacità maggiore di rappresentarlo nella sua frammentazione associata ad una rinnovata cultura e pratica democratica.

Negli anni Settanta, quando gli operai con le loro lotte hanno visto aumentare i salari e la loro capacità di controllo sulle condizioni di lavoro, i consigli rappresentavano la più forte garanzia per l’unità sindacale e il legame stretto tra la contrattazione nazionale condotta dalle categorie e la contrattazione decentrata nei luoghi di lavoro, sui tempi e sui ritmi di lavoro, e sulla sicurezza. I lavoratori vincenti erano il punto di riferimento anche di grosse battaglie politiche e culturali, e di grandi riforme. Il sistema sanitario nazionale, la scuola unica di base – arricchita tra l’altro dalla presenza fisica degli operai attraverso le 150 ore – la stessa legge Basaglia che chiudeva i manicomi, ebbero negli operai e nei consigli una solido punto di riferimento politico. E fu in quella stagione che si cominciò a ragionare dei consigli di zona, come modo per unificare intorno alla classe operaia un fronte più vasto, teso al miglioramento della vita e alla partecipazione politica, nel proprio territorio, nel proprio comune, nel proprio quartiere. In molte realtà, a Reggio Emilia, come ricorda Landini nel suo libro autobiografico, ma anche a Genova e in altre realtà industriali, gli operai contrattarono con le aziende affinché l’1% dei loro salari fosse destinato a investimenti pubblici a vantaggio di tutta la popolazione, soprattutto quella più povera e marginalizzata. Per fare e rendere più accoglienti asili nido, biblioteche, scuole, strutture sanitarie.

La crisi economica e del modello produttivo, il ciclo lungo della finanziarizzazione e dell’austerità, che provocò un arretramento salariale e un indebolimento del peso politico del sindacato, portò anche alla crisi dei consigli, e al loro progressivo rinchiudersi in difesa. Dall’1% del monte salari per investimenti sociali, si passò al welfare di fabbrica, a partire da quello sanitario, come compensazione della progressiva incapacità dei salari a garantire una vita dignitosa. Proteggere sé stessi e le proprie condizioni di vita, diventò l’imperativo di fase. E quando ci si si difende spesso il diverso è vissuto come un potenziale nemico. La mancata partecipazione di una parte consistente dei lavoratori stabili al voto referendario ci dice che siamo ancora in questa fase. Superarla significa agire su due fronti. Uno è quello dell’impegno per rinnovi contrattuali che scongiurino innanzitutto l’arretramento dei salari rispetto all’inflazione – quella cosa per cui è sempre più difficile arrivare alla fine del mese –, e alla conquista di una organizzazione del lavoro fondata su spazi di riconoscimento professionale, partecipazione al processo produttivo e autonomia quindi libertà.

L’altro è assumere la consapevolezza che i soggetti fondamentali e centrali per la costruzione del sindacato di strada non possono più essere uguali a prima, che è necessario rafforzare il livello orizzontale delle Camere del lavoro e adottare una modalità che valorizzi l’agire in rete a vantaggio anche dell’azione collettiva nei luoghi di lavoro in cui convivono, spesso in conflitto tra loro, lavoratori con contratti diversi, e con un diverso sistema di tutele e di garanzie. La catena del valore si allunga e mette all’opera soggetti diversi, dalle ditte d’appalto ad un indotto che spesso si frantuma fino al lavoro autonomo individuale, ai cosiddetti imprenditori di se stessi, ma che svolgono – per usare una espressione proprio di Massimo d’Antona – un lavoro strumentale all’attività economica altrui. Per rappresentarli, per farli diventare soggetti consapevoli del loro ruolo e con qualche voce in capitolo sul loro destino, non basta coordinare le categorie a cui in quel momento afferiscono, ma bisognerà pensare a delegati di sito – sia (esso) la fabbrica, o un centro logistico, un ospedale o una università – e di filiera – la logistica e l’agroalimentare – che trovino la loro collocazione e il loro coordinamento nelle camere del lavoro. Tra l’altro è questa dimensione orizzontale che può alimentare con più forza la stessa verticale delle categorie. Se negli anni Settanta era dalle vittorie in fabbrica che si partiva per investire il territorio, oggi la strada e il sindacato di territorio è il punto di partenza per la stessa rivitalizzazione del conflitto nei luoghi di lavoro e di una nuova stagione consigliare.

Il sindacato di strada, per rispondere alle domande che nascono dai giovani, da quegli stessi che massicciamente hanno partecipato al referendum, non può avere una dimensione puramente lavoristica. Deve provare a rispondere alle domande che al mondo del lavoro rivolgono quelli che si mobilitano per la pace e per contrastare il riscaldamento climatico. Da quelli che rivendicano il diritto alla casa come quello alla sanità. Bisogna riappropriarsi delle indicazioni che nacquero dallo straordinario incontro in Vaticano fra i 5000 delegati della Cgil con papa Francesco che con la Laudato sì ha tracciato la strada di una strategia capace di tenere insieme pacifismo, giustizia ambientale e giustizia sociale. Visione che è stata al centro della grande manifestazione a San Giovanni su “la via maestra”. Ma l’impegno per la pace e sull’ambiente implica un cambiamento forte nel modo di fare sindacato. Se prima l’idea di controllo poteva limitarsi a confrontarsi con i processi produttivi, e far valere la volontà dei lavoratori, le loro esigenze di salute e di sicurezza, la loro stessa intelligenza, rispetto ad una impresa che pensava di poter decidere unilateralmente tempi e ritmi di lavoro, oggi il controllo, se vuole essere elemento di una battaglia per la pace e per l’ambiente deve riguardare anche il prodotto, non solo il come ma anche il perché e il per chi si produce.

Del resto, quasi un secolo fa, un filosofo liberale come John Dewey diceva che quello che distingueva il lavoro degli schiavi da quello dell’uomo libero era la conoscenza o meno dello scopo e dell’utilità del proprio lavoro. E nel territorio, e non solo nella politica nazionale, vanno trovate le alternative occupazionali e messe in moto le attività formative necessarie, per passare dalla produzione di armi e di merci che distruggono il territorio e l’ambiente, a produzioni orientate al benessere e al ben vivere delle persone. Tutto questo è necessario e possibile. Necessario, perché se il nostro Paese, se l’Europa, tarda ancora a mettere in atto una transizione ecologica del nostro modo di produrre e di vivere, saremmo fuori da quello che è oggi il cuore pulsante della innovazione produttiva e di sistema nel mondo, a meno che il mondo non voglia rassegnarsi alla propria fine. Possibile, perché, tanti esempi a livello territoriale già ce lo dimostrano, si può progettare la crescita di lavoro buono, per i suoi effetti e la sua qualità, di fronte alla necessità, di ridurre o di dismettere produzioni che fanno male all’ambiente e alla vita.

Ed è a livello di strada che oggi possiamo affrontare le questioni che più pesano sulla vita delle persone che in tanti modi diversi lavorano. La questione del costo della casa e del costo della salute pesano oggi in maniera decisiva sul reddito dei lavoratori. Determinano come il salario dia la possibilità di arrivare o non arrivare alla fine del mese. Il lavoro è povero anche per queste ragioni. Sulla salute anche è necessario ragionare sulle scelte del passato e misurarne la congruità col presente. Nella sanità, per esempio, abbiamo tutti ceduto in anni non lontani alla ideologia che vedeva nella azienda il modello organizzativo che avrebbe risolto il problema dei costi e della burocrazia. E abbiamo troppo tranquillamente accettato che si passasse dalle Unità sanitarie locali alle Aziende sanitarie. Per scoprire poi che dentro la logica dell’azienda, dietro i numeri progressivamente sparivano le persone, e che si indebolivano, fino quasi ad azzerarsi le attività di prevenzione sul territorio e nei luoghi di lavoro. Le Usl nacquero anche dalle lotte per la salute negli ambienti di lavoro, dalla straordinaria alleanza dei consigli dei lavoratori con l’intelligenza di uomini come Maccacaro e di tanti giovani medici che decisero di diventare medici del lavoro, per svolgere un servizio sociale, in fabbrica e sul territorio, per difendere lì la salute e il ben vivere delle persone.

Nell’azienda la prevenzione è pressoché sparita. E sono spariti i soggetti che vanno nelle fabbriche e nei cantieri non solo per ispezionare la responsabilità delle sventure che capitano, ma per prevenirle, valutando coi lavoratori quali sono le cause che sono all’origine di quelle sventure ormai quotidiane. Col referendum avevamo indicato nei subappalti una causa decisiva. Ed è vero, ma con la contrattazione territoriale dobbiamo fare di più, per rimettere in moto l’alleanza fra le rappresentanze dei lavoratori e il sistema che governa la nostra salute, nei luoghi di lavoro e nel territorio, a proposito di prevenzione. La prevenzione necessaria non è solo quella dell’analisi precoce della malattia per curarla in tempo – cosa che tra l’altro non avviene – ma soprattutto quella di ridurre drasticamente le cause delle malattie e degli incidenti sul lavoro. Ed era questo il compito fondamentale per cui i medici del lavoro sono nati. E riflettere a livello nazionale, noi e la politica, se l’aziendalizzazione della sanità sia stata da questo punto di vista una scelta sensata.

Il sindacato di strada è insomma una scelta ineludibile, ma molto complessa, che richiede puntuali verifiche delle politiche nazionali e della configurazione politica e organizzativa del sindacato sul territorio nel rapporto con le categorie. Un lavoro che il sindacato deve fare al suo interno attraverso una riflessione attenta che metta a valore limiti e risultati dell’esperienza referendaria ma anche all’esterno nel confronto con quel vasto mondo associativo che è stato al nostro fianco nelle mobilitazioni per la pace e per l’ambiente ma soprattutto con le migliaia e migliaia di nuovi attivisti protagonisti della campagna referendaria. Le camere del lavoro dovranno essere la sede in cui naturalmente si confrontano col sindacato le associazioni e i comitati territoriali, i soggetti che sul territorio si battono per il diritto alla casa, e quelli che danno vita alle comunità energetiche. E nelle aree interne, e non solo, i giovani contadini che da soli o in forma associata si impegnano per una agricoltura biologica e il più possibile a chilometro zero e scoprono anche lì nuove possibilità di lavoro. E i giovani che si inventano lavoro nella salvaguardia dei beni culturali, e i tanti che si impegnano in attività di volontariato, per i quali è necessario valorizzare le competenze e promuoverne i diritti, perché è insensato continuare a considerare lavoro produttivo solo quello fatto per il mercato delle merci, e lasciare in ombra il lavoro che si fa per alleviare la miseria del genere umano, e che contribuisce alla riduzione della miseria e della povertà. E portare sul territorio la lotta che dovremmo fare per il salario minimo, ma anche riprendendo la discussione politica e l’iniziativa per un vero reddito di cittadinanza.

Il sindacato di strada come ritorno alle camere del lavoro delle origini, quelle in cui disoccupati, tute blu e giacchette nere, donne che facevano il lavoro a domicilio – lo stesso che fanno oggi molti forzati del computer che forniscono i dati alle centrali dell’Intelligenza artificiale –, maestri e insegnanti che volevano insegnare a chi ne aveva bisogno e lavoratori che volevano imparare, si trovavano insieme per mettere in discussione lo sfruttamento del lavoro e le disuguaglianze. Trentin e prima di lui Di Vittorio ci hanno ricordato che proprio questa natura orizzontale del sindacato delle origini nel nostro Paese, fu alla base del superamento del sindacalismo di mestiere, e della costruzione dei diversi sindacati dell’industria per andare verso un modello solidaristico radicato nei luoghi di lavoro quanto nel territorio. In condizioni mutate, crediamo che la cosa valga anche per l’oggi.

*Fondazione Di Vittorio

FINE (La prima parte è stata pubblicata sull’Unità del 21 giugno)

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