Terzo mandato, la destra fa dietrofront: pronta la norma salva Zaia

La giravolta del Governo
Il governo aveva impugnato la legge della Campania per sbarrare la strada a De Luca. La Consulta aveva confermato il divieto dando ragione al governo. Ma ora il governo prepara il via libera allo Zaia quater...

Contrordine compagni! Se non fosse per l’opposto riferimento politico, così si potrebbe dire per il dietrofront – a quanto pare – di Governo e maggioranza di centro destra sulla questione del terzo mandato consecutivo dei presidenti di Regione. Breve riassunto delle puntate precedenti di quello che sta assumendo le dimensioni di un vero e proprio feuilleton politico-istituzionale. Introdotta nel 2001 l’elezione diretta dei presidenti di Regione, il legislatore statale, solo nel 2004, introduce il principio per cui non possono ricoprire il loro incarico per più di due mandati consecutivi.
Già si pone il primo problema: da quando? Il mandato di chi è già Presidente vale? In (voluta) mancanza di indicazioni espresse da parte del legislatore, si conviene sulla non retroattività del principio introdotto. Il che consente a Formigoni e Galan, che erano già stati Presidenti delle regioni Lombardia e Veneto (1995-2000) di poter fare un secondo (2000-05) e un terzo mandato (2005-10). Tutto risolto? Macché! Secondo problema: il principio introdotto si applica automaticamente sin dal 2004 oppure da quando viene recepito dalle leggi regionali in materia cui la legge statale fa espresso rinvio? Anche in questo caso, ovviamente, prevale l’interpretazione più lasca. Così, poiché il divieto di terzo mandato viene recepito in Veneto con legge solo nel 2012, ciò permette a Zaia, già eletto per la prima volta nel 2010, di potersi ricandidare una seconda (2015) e terza (2020) volta. Lo stesso fanno le Marche che approvano una legge che consente al presidente Spacca, già in carica nel 2005 e nel 2010, di ricandidarsi una terza volta (stavolta senza successo) nel 2015.
Complice la mancata impugnazione di tali leggi dinanzi alla Corte costituzionale, innanzi tutto da parte dei governi dell’epoca (Monti e Renzi), il giochino di ritardare l’applicazione del divieto di terzo mandato si fa strada e viene tentato dal Piemonte nel 2023 e dalla Campania nel 2024, così da consentire al presidente De Luca, dopo i due mandati del 2015 e del 2020, di potersi ricandidare quest’anno. Solo che stavolta, in un soprassalto di legalità costituzionale – oppure, se siete malpensanti, per mero calcolo politico al fine di impedire terzi mandati nelle Regioni governate non da esponenti di Fratelli d’Italia (Lombardia e soprattutto Veneto, dove addirittura potremmo essere al quarto mandato!) – il governo Meloni decide d’impugnare la legge campana dinanzi alla Corte costituzionale. La quale, com’era ampiamente prevedibile, lo scorso 15 maggio afferma che il divieto del terzo mandato consecutivo per i Presidenti di Regione è un principio fondamentale che vincola i legislatori regionali fin da quando dopo il 2004 adottano le prime leggi elettorali. E siccome si tratta di un principio fondamentale, esso si applica anche alle Regioni a statuto speciale.
Per questo motivo, lo scorso 19 maggio sempre il governo Meloni ha impugnato la legge della provincia autonoma di Trento che permetterebbe al Presidente Fugatti un terzo mandato. La partita sembrava dunque definitivamente chiusa, anche per il peso degli argomenti addotti dalla Corte costituzionale, secondo cui il limite dei due mandati consecutivi costituisce il punto di equilibrio tra elezione diretta del vertice dell’esecutivo e la conseguente inevitabile concentrazione di potere che da essa deriva in capo ad una sola persona. Si tratta dunque di un limite che, prima ancora che riguardare l’assetto di governo, riguarda la democrazia di uno Stato perché con esso si vuole evitare che il mancato avvicendamento nella carica di Presidente di Regione provochi forme di stratificazione e di consolidamento del sistema di potere che finiscano per ledere l’effettiva parità di chance tra i candidati, la libertà di voto degli elettori, la corretta competizione elettorale, il necessario fisiologico ricambio della rappresentanza politica; insomma, in una parola sola, la democraticità di regioni ed enti locali.
Non è un caso, del resto, che gli Stati in cui il divieto di terzo mandato è saltato (Venezuela, Nicaragua, Russia, Salvador, Egitto, Cina) o s’intende far saltare (Stati Uniti, Turchia) sono contrassegnati da derive autoritarie. Invece, le cronache di questi giorni ci narrano di un improvviso quanto immotivato ripensamento sul tema da parte della maggioranza di centrodestra, o forse sarebbe meglio dire del suo partito di maggioranza relativa, come se nulla fosse finora accaduto e, specificamente, come se la Corte costituzionale non si fosse pronunciata. La scelta di ignorare le sentenze della Corte, e in particolare le motivazioni definitive e dirimenti addotte a sostegno di ciò che costituisce un limite necessario in democrazia per evitare eccessive concentrazioni di poteri denota una scarsa sensibilità istituzionale, tanto più grave perché frutto di una ondivaga e contraddittoria politica costituzionale, piegata alle necessità politiche del momento.
Se poi a tutto questo si aggiunge che, pur di conseguire il risultato voluto entro le prossime elezioni regionali, si è disposti all’ennesima forzatura parlamentare, il quadro istituzionale si rende ancora più fosco e inquietante. Poiché infatti, per la prevedibile opposizione del Quirinale, sembra impraticabile la strada dell’ennesimo decreto legge (a proposito, a dispetto delle ipocrite rassicurazioni circa il ridotto abuso, se ne festeggia in questi giorni il 100°: evviva!), ecco che si ipotizza di proporre un emendamento nel disegno di legge (A.S. 1452) attualmente all’esame in sede redigente della Commissione Affari costituzionali del Senato che si occupa di tutt’altro (invarianza del numero dei consiglieri regionali se la popolazione aumenti o diminuisca entro il 5% e aumento di due del numero degli assessori nelle regioni fino a 2 milioni di abitanti).
Insomma, pur di arrivare a destinazione, si prende il primo treno che passa e gli si aggancia un vagone, con buona pace dei requisiti non solo di omogeneità ma anche di coerenza, considerato che, come ammesso dal Presidente di quella Commissione, non si capisce il motivo per cui i Presidenti di Regione potrebbero fare un terzo mandato e i Sindaci nei Comuni con più di 15 mila abitanti no. Ancor più grave, ai limiti dell’eversione costituzionale, sarebbe prolungare le legislature regionali in assenza di gravi motivazioni (come fu durante la pandemia) solo per avere più tempo per abrogare il limite del terzo mandato. Insomma, la questione del terzo mandato è sotto il profilo costituzionale e parlamentare troppo seria e importante per ridurla a semplice merce di scambio politico tra partiti che altrimenti dimostrerebbero di aver perso il senso del rispetto delle istituzioni.
l'Unità