Una triplice arma contro il melanoma

Una strategia per ostacolare la crescita dei tumori è il controllo della neo-angiogenesi, vale a dire la capacità del cancro di indurre nel sistema vascolare la proliferazione di una rete di vasi sanguigni con cui favorire la propria crescita e autodifesa.
A innescare il processo, che è mediato dalla proteina Vegf, è la carenza di ossigeno dovuta al super-metabolismo del tumore. E’ questa condizione, l’ipossia, a stimolare le cellule neoplastiche a produrre Vegf per disporre di una rete vascolare dedicata e ricevere, quindi, più ossigeno. Rispetto a quella fisiologica, però, questa rete è caotica. Ad esempio, nei suoi vasi la pressione verso l’esterno supera quella in senso contrario.
Questa “permeabilità invertita” avvantaggia il cancro, perché ostacola l’ingresso dei chemioterapici nelle cellule neoplastiche e favorisce le metastasi. Infatti, è proprio lì che la ricerca prova a colpire il cancro. Il meccanismo, però, è complesso e i primi parziali successi si stanno ottenendo solo oggi, con una terapia che combina tre farmaci, ciascuno dei quali favorisce l’azione degli altri e porta con sé esperienze e approcci differenti al problema.
Dopo aver scoperto, già un quarto di secolo fa, che l’angiogenesi tumorale è innescata dal Vegf, si è puntato a inibire questo fattore per bloccare “a monte” le possibilità del cancro di progredire. “I risultati, però, non sono stati positivi come si sperava - spiega Federico Bussolino, oncologo dell’Università di Torino e dell’Istituto Irccs di Candiolo - perché la minore ossigenazione causata dalle terapie anti-Vegf è un’arma a doppio taglio: finisce, dopo un po’, per stimolare la selezione di cellule resistenti, dotate di mutazioni che le rendono di nuovo aggressive. Inoltre, gli antiangiogenetici risultano poco specifici, cioè piuttosto tossici anche per le cellule sane”.
I ricercatori hanno provato, allora, a modulare l’angiosoppressione in base allo stadio della neoplasia. “Anche in questo caso - precisa Bussolino - con esiti che sono inferiori alle attese, perché non è semplice calibrare i dosaggi”. Il team torinese, tuttavia, ora sta sperimentando altre strade, capaci di erodere le percentuali di ricaduta del melanoma, tumore che per le sue caratteristiche si presta bene queste ricerche.
“In più del 50 per cento dei casi - riprende Bussolino - il melanoma cutaneo dipende da una mutazione dell’oncogene Braf, che controlla la proliferazione cellulare. La ricerca ha messo a punto inibitori specifici di questo enzima-oncogene, che hanno aumentato la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti, anche se non riescono a evitare fenomeni di resistenza”.
Messa comunque all’attivo anche questa parziale risorsa, adesso finalmente si profila un passo di notevole ampiezza. “Uno studio preclinico della collega Valentina Comunanza all’Istituto di Candiolo ha portato ad alcune osservazioni che consigliano di riprendere in considerazione gli anti-angiogenetici”. Si tratta dell’anticorpo monoclonale bevacizumab, proprio quello, cioè, che 25 anni fa aveva aiutato a mettere in luce il ruolo del Vegf e dell’angiogenesi nell’evoluzione dei tumori solidi.
“La prima osservazione riguarda l’effetto ad ampio raggio tra il bevacizumab e gli inibitori dell’oncogene Braf. Sapevamo che questi ultimi controllano la proliferazione neoplastica, mentre l’anticorpo monoclonale ‘normalizza’ i vasi del tumore, riossigenandolo ed evitando la selezione di cloni tumorali più aggressivi. La novità consiste in un altro effetto, già supposto e ora verificato, del Vegf: non è solo un potente modulatore dell’angiogenesi, ma ha anche un’attività immuno-soppressiva. Quindi, il bevacizumab contribuisce a ‘difendere le difese immunitarie’ dall’azione del Vgef, stimolando la comparsa di macrofagi antitumorali. Nello stesso tempo, insieme con l’anti-Braf, attiva l’immunità innata e adattiva e ‘prepara’ il tumore a ricevere l’immunoterapia”.
A rendete ancora più efficace la terapia antimelanoma è l’aggiunta di un terzo ingrediente alla coppia “anti-Braf + bevacizumab”: sono gli anticorpi monoclonali antiPd1, capaci di moderare l’attività dei cosiddetti “checkpoint”, le proteine che frenano la risposta immunitaria alle cellule tumorali. Bussolino conferma che anche il Braf-inibitore, il bevacizumab e l’anti-check point si potenziano a vicenda. “La loro associazione esplica un effetto anti-tumorale potenziato e prolungato, porta all’eradicazione nel 50% dei casi e stabilisce una memoria immunologica utile a prevenire ricadute”.
Questo nuovo approccio terapeutico, per ora in fase di studio preclinico, potrebbe essere utile per i melanomi caratterizzati da un’alta produzione di Vegf, che rappresentano circa l’8% di questo tipo di tumori. Il che non sarà la vittoria finale, ma le guerre si vincono anche così, battaglia dopo battaglia.
La Repubblica