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La taiwanese TSMC accelera sulle fabbriche di chip in Usa per evitare i dazi

La taiwanese TSMC accelera sulle fabbriche di chip in Usa per evitare i dazi

"Lo sforzo di aumentare la produzione interna di semiconduttori è un esercizio dispendioso, costoso e sostanzialmente futile". Morris Chang, 94 anni compiuti lo scorso 10 luglio, lo ha ripetuto più volte: sui chip è praticamente impossibile raggiungere l'autosufficienza, obiettivo dichiarato delle grandi potenze mondiali. Chang è il fondatore della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, nota in tutto il mondo come TSMC. Il colosso taiwanese gestisce da solo oltre il 50% del comparto di fabbricazione e assemblaggio di tutti i chip a livello globale. Il dominio è quasi totale sui chip più avanzati, cioè quelli di dimensioni inferiori ai 10 nanometri, su cui TSMC ha una quota vicina al 90%.

L'idea, o la chimera, di semi-autosufficienza è però quello che TSMC sta cercando di restituire a Donald Trump, che da tempo preme per portare la produzione del gigante di Hsinchu negli Stati Uniti. Dopo l’annuncio (a marzo) di un maxi investimento da 100 miliardi di dollari per cinque nuovi stabilimenti, l’azienda ha deciso di accelerare di “diversi trimestri” la costruzione del suo secondo e terzo sito in Arizona. L’obiettivo è chiaro: garantire chip avanzati per i big della tecnologia americana come Apple, Nvidia e AMD, ingraziarsi l’amministrazione Trump e evitare i dazi sui semiconduttori taiwanesi, che potrebbero arrivare fino al 100%. Il tutto nonostante l'azienda sia consapevole che la redditività degli investimenti negli Usa sia tutta da verificare.

Pur di accelerare sul fronte americano, l'azienda sarebbe pronta a ritardare la costruzione di un secondo stabilimento in Giappone. Il primo sito giapponese ha iniziato a produrre chip lo scorso autunno per clienti come Toyota. La costruzione del secondo stabilimento era inizialmente prevista per l'inizio di quest'anno, nell'ambito di un piano di investimenti da 20 miliardi di dollari nel Paese che ha portato a oltre 8 miliardi di dollari di sostegno promesso dal governo giapponese. Il ritardo rischia di essere un duro colpo per il Giappone, la cui economia sta iniziando a risentire dei dazi del 25% imposti da Trump sulle importazioni di automobili e acciaio. Tokyo sperava di raggiungere un accordo commerciale con gli Stati Uniti, ma i negoziati si sono arenati e dal primo agosto rischiano di entrare in vigore dazi del 25% su tutti i prodotti giapponesi.

La stretta protezionista annunciata da Washington, unita alla corsa globale all’intelligenza artificiale, spinge TSMC a diversificare la propria geografia produttiva. Una mossa necessaria per continuare a servire il mercato statunitense, ma che a Taipei suscita timori: lo “scudo di silicio”, quell’insieme di fabbriche che rende Taiwan strategica e difficilmente attaccabile, rischia di perdere parte del suo valore deterrente. Trump ha promesso di riportare in America la produzione high-tech, accusando Taiwan di “aver rubato il business”. Un'accusa priva di fondamento. La costruzione dell'impero di TSMC è stata incentivata proprio dagli Stati Uniti.

Dopo aver lavorato alcuni decenni negli States nel nascente settore dei semiconduttori, Chang arriva a Taiwan a metà degli anni Ottanta. Qui, compie la sua rivoluzione. Fino ad allora, chi progettava chip li produceva anche. Chang rompe il dogma: TSMC non inventa, non progetta. Costruisce. Ma meglio di chiunque altro. Apple, Nvidia, Qualcomm possono concentrarsi sull’innovazione, mentre TSMC fabbrica per tutti, senza competere. Come una Svizzera del silicio, neutrale ma imprescindibile. E inizia la scalata. Nel giro di trent’anni, la piccola fonderia diventa colosso: oltre 50.000 dipendenti, 90 miliardi di dollari di ricavi nel 2024, 885 miliardi di capitalizzazione.

Poco importa, la Casa Bianca ora vuole che una parte rilevante di quei chip venga fabbricata direttamente negli Stati Uniti. TSMC, agendo probabilmente al di sopra del governo di Taipei, è disposta a concessioni per due possibili ragioni. Primo: come detto, evitare dazi. Secondo: mettere radici altrove in previsione di una eventuale crisi sullo Stretto di Taiwan.

A Taiwan non tutti applaudono. Se le fabbriche di chip di ultima generazione venissero trasferite all’estero, l'isola rischierebbe di perdere parte del proprio potere strategico. Si, perché i chip non sono solo business. Sono anche strategia, diplomazia, potere. E, nel caso di Taiwan, un elemento di deterrenza. Da anni, la cosiddetta “montagna sacra di silicio” — il complesso industriale dei microchip, soprattutto quello di TSMC — è considerata una parziale assicurazione contro azioni militari della Cina continentale, dove il colosso taiwanese mantiene peraltro degli stabilimenti e un enorme giro di affari.

In un incontro dei giorni scorsi con la stampa internazionale, la vicepresidente Hsiao Bi-khim ha provato a rassicurare: "Taiwan ha un ecosistema robusto di produttori e fornitori, difficile se non impossibile da replicare altrove. Continueremo ad avere un vantaggio strategico nel settore". Ma c'è anche chi teme che si arrivi al trasferimento tecnologico verso Intel, mentre l'opposizione parla di “svendita dello scudo di silicio come tassa di protezione”. Con la controindicazione che, qualora un giorno ci fosse la percezione che si possa fare a meno dei chip di Taiwan, un'amministrazione statunitense transazionale come quella Trump potrebbe anche lasciare Taipei al suo destino.

La Repubblica

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