Mariangela Capossela, l’artista che dà voce a chi non ce l’ha

È entrata negli archivi degli ex manicomi. Ha attraversato chilometri di scaffali, guardato dentro scatoloni pieni di cartelle cliniche. E ha trovato un’infinità di lettere abbandonate. Lettere d’amore, messe lì insieme alla lista dei farmaci e a quella dei trattamenti psichiatrici. Grida d’aiuto, sogni e poesie che i malati scrivevano ai loro cari, figli, madri, padri, amici, conoscenti, ma anche al Papa, al Re: lettere che nessuno ha mai letto. Lei le ha riportate alla luce. Lo sapevate che ai malati psichiatrici, nella prima metà del 900, era vietata qualsiasi corrispondenza con l’esterno? Loro scrivevano, inviavano messaggi scritti, aspettavano risposte, ma non sapevano che quelle lettere non sarebbero mai state inviate. Era prassi requisirle.
Mariangela Capossela, artista italiana a Lione, ha costruito un’opera d’arte collettiva che ridà voce a chi è stato messo a tacere. «Questo lavoro per me è un invito a rispondere presente, a poter dire: io ci sono, a tessere legami umani».
L’opera si intitola Corrispondenze immaginarie. Un progetto di innovazione sociale che è diventato anche un documentario in onda su Rai 3 da aprile. Capossela ha raccolto le lettere e ha trasformate in opere d’arte: trascritte a mano da copisti, inviate a chi ha scelto di diventare destinatario e rispondere, e poi rese accessibili in luoghi pubblici per essere lette. Non ad alta voce, ma dove ognuno le legge insieme agli altri in silenzio.

Capossela vive a Lione da oltre vent’anni, è arrivata in Francia per un dottorato in letteratura francofona magrebina, ma non ha mai interrotto il legame con l’Italia. Artista, curatrice, anima insieme al fratello Vinicio lo Sponz Fest in Irpinia, lavora sul confine tra memoria e linguaggio, tra spazio pubblico e intimità.
«Tutto è iniziato nel 2022, da una commissione di Volterra. Era appena finita la pandemia quando il direttore artistico Paolo Verri, che aveva visto alcuni miei interventi di arte pubblica, mi propone una sfida: ideare un progetto sulla memoria dell’ex ospedale psichiatrico cittadino. Ho iniziato a fare i sopralluoghi. Lì dove c’erano i 30 edifici del manicomio oggi è tutto in rovina, in stato d’abbandono. Eppure lì ho trovato un volume raro: “Corrispondenza negata”, 140 lettere di malati psichiatrici mai spedite. Ho iniziato a interessarmi a questi scritti, scoprendo poi che in ogni ex ospedale psichiatrico giacciono migliaia di lettere. Simboli di un dialogo che è rimasto inceppato. Da qui è nata l’idea di liberare quelle parole chiuse in fascicoli clinici e farle rinascere grazie alla partecipazione collettiva».
Da Volterra, Mariangela è andata negli ex ospedali di Trieste, poi a Gorizia, infine a Lione.
Il progetto di arte collettiva funziona così: c’è una prima call pubblica che raccoglie i nomi e gli indirizzi di chi vuole ricevere una lettera. Il destinatario deve rispondere, scrivendo a qualcuno che non c’è più. Più di 2mila persone hanno chiesto di ricevere una delle missive. Con una seconda call, Mariangela cerca poi i copisti tra i cittadini dei territori da cui provengono le lettere.
«Ci troviamo tutti insieme in una sorta di scriptorium medievale. Si riscrive a mano la lettera. Con calma, pennino e inchiostro. Ci si riappropria del gesto della scrittura, riaffermando il valore della lentezza in un mondo che va veloce. Le lettere vengono confezionate una a una. Ogni copista lascia un segno, un frammento di sé».

«Poi c’è l’ultima fase: quella della lettura. Non in un teatro, ma in spazi aperti, familiari. A Calitri, le lettere sono state lette nei salotti delle case messe a disposizione dagli abitanti. A Trieste, tra gli sportelli chiusi del vecchio Palazzo delle poste, tuttora in funzione».
Nata a Milano da genitori irpini emigrati negli anni Sessanta. Cresciuta in Emilia. «In realtà non mi sono mai sentita davvero a casa da nessuna parte». In famiglia nessun contatto con l’arte, eppure sia lei sia il fratello Vinicio sono entrambi artisti. «Se non avessimo incontrato l’arte, magari ci avrebbero internato… (scherza ndr)». Studia lingue e letterature straniere a Bologna, poi si specializza nella letteratura magrebina postcoloniale, tra Pisa e Lione.
Il progetto “Ci Corrispondenze immaginarie” ha un valore anche storico.
«Sono documenti storici di un’istituzione ospedaliera e vogliono generare uno scambio, una corrispondenza, come gesto di memoria attiva. Alcune lettere sono piene di dolore, altre confuse, disconnesse nella logica ma poetiche, altre anche ironiche. Spesso c’è scritto: “È la quinta volta che ti scrivo. Perché non rispondi?”. C’è un filo che le percorre tutte. È una richiesta di aiuto, il desiderio di uscire. C’è una rappresentazione forte di ciò che vuol dire reclusione. Reclusione non solo tra le mura di un manicomio, ma anche all’interno di una malattia. Traspare un senso di sofferenza. Si aprono finestre su tutto un altro modo di ragionare, di vedere il mondo di chi ha una mente che funziona in un modo diverso. L'"alterità” di chi è malato».
Ogni lettera è un pezzo unico. «Contiene la calligrafia di qualcuno che si è messo a disposizione e spesso si è identificato con l’autore. In tutto il progetto c’è un grande scambio di identità, di passaggi anche attraverso faglie temporali. E la stessa cosa succede a chi la riceve, che vede la scrittura del copista, legge il senso della lettera e poi scrive una risposta, che è una risposta impossibile se ci pensi con razionalità ma che invece si realizza».
Tutte le risposte ora sono in un archivio virtuale. «Le ho scansionate tutte. Chissà, magari potrebbe nascerne una pubblicazione…».
Intanto Mariangela ha partecipato a un bando indetto dal Ministero della Cultura per la promozione degli artisti italiani all'estero: ha già permessi per entrare negli archivi nei manicomi francesi. Tanta l’energia che circola. «Persone che non si conoscono si ritrovano a condividere l’esperienza. Il livello di energia che senti è potente e succedono cose forti. Anche i lettori spesso lasciano una traccia scritta, inviano messaggi. Anche loro in qualche modo vogliono dire: Presente, ci sono. Questo progetto è un modo di esserci. Nel titolo c’è Ci: quella particella pronominale che declina il noi».
Cosa hai imparato lungo la strada che può servire a tutti noi?
«Ho imparato a praticare la fiducia nell'altro, nell'essere umano. Ad accettare quello che la fisica chiama forza d’attrito: nell'azione artistica perdi i soldi, perdi le lettere, perdi tante energie, però c’è anche qualcosa d'altro che si sviluppa, che torna indietro e che si crea da quello slancio di energia. Ecco la mia storia è un invito a rimettere in circolo l'energia…».
La Repubblica