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Vladimiro Panizza, il piccolo grande campione che sfidò Bernard Hinault

Vladimiro Panizza, il piccolo grande campione che sfidò Bernard Hinault
Sport

In questi giorni di prolungati festeggiamenti per gli 80 anni di Eddy Merckx, il più forte di sempre in attesa che Tadej Pogacar prima o poi non riesca a detronizzarlo (ma sarà dura...), ci piace ricordare un piccolo grande protagonista del ciclismo degli anni Settanta-Ottanta, un periodo molto effervescente per questo sport che, come seguito popolare, teneva ancora testa al calcio, il grande fratello che in pochi anni avrebbe divorato l’attenzione generale.

Erano gli anni di Merckx e Gimondi, di Hinault e Battaglin, di Basso e Bitossi, di Baronchelli e Contini, di Moser e Saronni. Un fitto elenco che andrebbe allungato all’infinito. Perchè in quel ciclismo, non svettavano solo i campioni più popolari, ma anche figure meno vincenti ma altrettanto importanti che hanno reso indimenticabile e irripetibile quella stagione.

Alcuni erano gregari, e lo ribadivano con orgoglio non vergognandosi di quella definizione che ora suona quasi offensiva. Altri invece erano corridori con palmarès di tutto rispetto che, ogni tanto, si prendevano il gusto di lasciare indietro, quando si distraevano, i colonnelli del gruppo.

Magari, questi sottufficiali coraggiosi, non vincevano il Giro o il Tour, però qualche tappa e qualche buon piazzamento in classifica riuscivano a centrarlo, entusiasmando le loro tifoserie, specie se, come per il nostro Vladimiro Panizza, venivano da piccoli borghi che, pur facendo parte della toponomastica del ciclismo, non erano mai riusciti a a varcare il confine della grande notorietà.

Ebbene, Vladimiro Panizza, nato il 5 giugno 1945 a Fagnano Olona in provincia di Varese e morto il 21 giugno 2002 a Cassano Magnano, incarna al meglio quel prototipo di corridore di cui sopra. Un corridore generoso, tutto cuore e coraggio, ben raccontato da Paolo Costa (“Miro Panizza Campione tra i campioni”, Macchione Editore, 20 euro).

Un bel libro, con tante splendide fotografie, dove oltre ai suoi exploit agonistici emerge anche la cornice del tempo e di come la carriera di Panizza sia maturata in un periodo storico già lanciato verso la modernità ma con ancora viva quell’ingenuità contadina del Dopoguerra. Di quell’Italia che quando dice “Buongiorno, vuol dire proprio buongiorno”, come precisa uno dei protagonisti di “Miracolo a Milano”, il celebre film di Vittorio de Sica, uscito qualche anno dopo la fine del conflitto.

E Vladimiro Panizza, detto Miro per evitare richiami a quell’altro Vladimiro (Lenin) che cambiò la storia russa, era proprio un figlio del Dopoguerra, essendo nato nel giugno del ’45 quando ormai, sgombrando le macerie, si cercava a fatica di far ripartire un paese umiliato e devastato.

Ultimo di 4 figli, con il papà Angelo, partigiano comunista, subito mancato nel 1948, il piccolo Panizza era un bambino sporco di fango che correva tra il pollaio e l’orto per sfuggire ai rimproveri di mamma Maria. Miro era veloce ma leggerino, soprattutto quando, giocando a calcio all’oratorio, finiva sempre per terra. Si distinse invece quando fu assunto come fattorino da un orafo di Oggiona, un altro paesino del Varesotto, terra fertile di campioni come Luigi Ganna, Alfredo Binda, Claudio Chiappucci, Ivan Basso e Stefano Garzelli.

Da fattorino, Miro diventa un “driver ante litteram” quando a pedalare e distribuire pacchi erano ancora gli italiani. Panizza, destreggiandosi tra aie e cascinali, su una bicicletta più pesante di lui, intuì che quello di pedalare era il suo destino, un destino che si concretizzò a 21 anni quando venne ingaggiato da una squadra professionistica, la Vittadello, azienda attiva nel settore tessile. Una squadra ambiziosa, con capitani come Michele Dancelli e Aldo Moser, figure di primo piano in quel 1967 in cui primeggiavano campioni ancora più osannati come Gimondi, Adorni, Motta e Zilioli.

Tanto Panizza era piccolo di statura (1 metro e 60 cm per 50 chili) tanto lunga fu invece la sua carriera agonistica che si concluse a 40 anni nel 1985 alla Ariostea con Silvano Contini come capitano.

Scalatore agile e tenace, soprannominato “Roccia” per la sua resistenza, Panizza riusciva spesso ad andare più forte dei suoi capitani, facendoli innervosire perchè, quando le gambe gli giravano, non sentiva più ragioni. Ma poi, siccome era un’anima pura, finivano per perdonargli le sue esuberanze che comunque lo portarono a vincere una Milano-Torino, 2 tappe al Giro d’Italia e una al Tour de France.

Panizza ha girato tanto squadre. Il suo momento magico fu nel 1980 alla Gis di Beppe Saronni, maglia rosa nel 1979. Miro, che ha già 35 anni, riceve l’ordine dal sua capitano di marcare proprio quel Bernard Hinault che in montagna è una furia scatenata. Panizza gli si incolla e non lo molla più rispondendo scatto dopo scatto. Una tenacia straordinaria che colpì Hinault, ammirato dal coraggio del piccolo Panizza che, a Roccaraso, riesce a conquistare anche la maglia rosa tenendola fino alle Dolomiti, dopo averla dedicata alla moglie Mariarosa e al figlio Massimiliano.

Sospinto dal tifo di tutta l’Italia, Panizza per una settimana è il protagonista di una bella fiaba di cui però tutti conoscono l’esito. Troppo forte, troppo potente Hinault, per essere battuto dal lombardo che, alla fine, dopo lo Stelvio, deve cedere, arrivando poi secondo a oltre cinque minuti dal francese. Evaporato il sogno, l’impresa di Miro resterà però nella memoria collettiva.

Piace quel piccoletto schietto, dalla faccia cotta dal sole, che anche in televisione, davanti al microfono dell’indimenticabile Adriano De Zan, non le manda a dire. Soprattutto quando c’è un’ingiustizia o qualcosa che va contro gli interessi dei corridori. Un burbero benefico, protettivo verso i più giovani, che nel 1984 organizza la protesta della tappa di Marconia di Pisticci, quando per una galleria poco illuminata cadono tutti come birilli.

Torriani, il grande patron del Giro, non ascolta le ragioni dei corridori e il buon Miro va su tutte le furie schierandosi contro “i padroni del vapore”, colorita espressione usata da Gino Sala, indimenticabile inviato de “l’Unità” di quegli anni.

Ma oltre ai sogni svaniti, e a qualche inevitabile rimpianto, come quello di non aver battuto Merckx nella tappa delle Tre Cime di Lavaredo (1967), Panizza verrà ricordato per le sue 18 partecipazioni al Giro d’Italia, finendo per nove volte tra i primi dieci.

Un record ancora oggi di cui Miro sarebbe orgoglioso. In 25 anni in sella ha percorso oltre 700mila chilometri. Quasi come dalla Terra alla Luna. E’ morto presto, troppo presto, Panizza: a soli 52 anni, tradito proprio da quel cuore troppo grande che, sulle montagne, aveva osato sfidare anche il leggendario Bernard Hinault.

Paolo Costa

“MIRO PANIZZA. Campione tra i campioni”

Macchione Editore, euro 20

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