Accordo sui dazi, l’Europa debole di fronte a Trump non è solo colpa di Ursula

l'accordo sui dazi
Von der Leyen ha sbagliato a riconoscere come fondato l’assunto dello “squilibrio” a sfavore degli Usa della bilancia commerciale, così ha permesso che vincesse il “racconto” di Trump. Ma il ritardo dell’Europa sul fronte della difesa e dello sviluppo delle tecnologie non è responsabilità prevalente di questa Commissione

Per capire quali possano essere le conseguenze economiche delle scelte unilaterali di Trump sui dazi (smettiamola di chiamare “accordo” il frutto di una imposizione), non sembra una cattiva idea quella di esaminare ciò che è accaduto quando Trump, al suo primo mandato, impose dazi sulle importazioni. L’ex capo economista del FMI –Maurice Obstfeld– ha così concluso la sua analisi: “non solo i prezzi dei beni soggetti a dazi aumentarono, ma aumentarono dell’intero importo dei dazi: le famiglie e le imprese americane si fecero interamente carico dell’onere: nulla fu trasferito agli esportatori stranieri“.
Questa volta sarà diverso? Non si può escludere, ma un esito analogo -sul terreno strettamente economico- resta l’effetto più probabile: come ha notato Lorenzo Codogno (Il Foglio del 30 luglio), i produttori americani, aiutati dall’Amministrazione, si sforzeranno di sostituire con beni prodotti negli USA una parte importante dei beni oggi importati, ma se raggiungeranno il 10% del totale sarà un gran risultato. Il 90% che resta continuerà ad essere importato e i “bellissimi“ dazi saranno una tassa aggiuntiva da versare allo Stato federale: per i cittadini e le imprese americani, la “vittoria” che oggi Trump celebra potrebbe avere un retrogusto amaro. Perché Trump non si preoccupa di questo rischio, che nel medio tempo potrebbe riservargli brutte sorprese elettorali, già nelle elezioni di medio termine? Non escludo che gli economisti che lo consigliano lo abbiano convinto che gli effetti dei dazi sui prezzi americani saranno contenuti e in ogni caso ampiamente compensati dall’impulso che l’economia americana riceverà dalla “grande e bellissima” legge di bilancio che è riuscito a farsi approvare dal Congresso, che ha bisogno del gettito dei dazi per compensare la drastica riduzione delle tasse sui contribuenti a reddito medio-alto. Ma credo che le scelte di Trump siano ispirate -piuttosto che da questi specifici obiettivi di politica fiscale- dall’esigenza di alimentare quell’immaginario che è una delle chiavi della strategia di Trump e che pretende ogni giorno l’annuncio di una nuova sfida, di un avversario da umiliare (ora è il turno dei “parassiti” europei), di una lotta da intraprendere, per tenere sempre impegnato il suo MAGA secondo un’agenda che non ha da essere coerente, ma da “raccontare” una storia di vittorie, in un “combattimento” sempre nuovo.
Non ripetendo quello che Trump considera l’errore principale del suo primo mandato: discostarsi in modo significativo dalle promesse fatte al “suo” popolo. Il sogno delle “tariffe“ che riempiono le casse dello Stato e fanno giustizia delle “prese in giro“ inflitte all’America da amici (soprattutto) e avversari, deve realizzarsi a qualsiasi costo: se ci saranno correzioni da fare si vedrà, ma oggi conta correre veloci verso la piena affermazione di America first. È la politica, bellezza… Anche l’amico super ricco Musk -che già si atteggiava a “vero“ presidente- ha dovuto prenderne atto, quando ha osato ostacolare il cammino della legge di bilancio. Il metodo del Trump secondo mandato non prevede giochi a somma positiva per entrambi i giocatori: quello che guadagnano gli USA lo “devono” pagare gli altri, in una sequenza sempre nuova di conflitti. America first è un sistema di idee e di scelte che cambia la natura degli USA nel contesto internazionale: da “nazione indispensabile“ a “superpotenza estrattiva“ (Bertoldi e Buti). Per questo, è stato un grave errore quello della Presidente Von Der Leyen di riconoscere come fondato l’assunto dello “squilibrio“ -a sfavore degli USA- della bilancia commerciale: “L’Europa ha un’eccedenza, gli USA un deficit, noi dobbiamo riequilibrare”.
Per la verità, le cose non stanno così: le due economie hanno un elevato livello di integrazione e -a dimostrazione che la teoria delle specializzazioni produttive e dei vantaggi del commercio internazionale qualche fondamento ce l’ha- si completano l’una con l’altra, in una relazione che non presenta né eccessive eccedenze, né enormi deficit: se si prendono nel conto sia i beni della manifattura, sia i servizi (nella prima, il deficit è degli USA; nei secondi, il deficit è europeo), si rivela un sostanziale equilibrio. Per non considerare che una parte enorme sia delle importazioni, sia delle esportazioni degli USA è da attribuire al commercio intra-impresa multinazionale. In altre parole: le grandi corporation americane dei servizi sottostimano -per ragioni fiscali- le esportazioni dagli USA e sovrastimano le importazioni, dando così luogo ad uno squilibrio che ha poco a che fare con la realtà economica e molto coi paradisi fiscali interni all’Unione Europea. Sottovalutare l’importanza di questi dati e ammettere lo squilibrio non è stato un errore tecnico-statistico. È stato un errore politico, perché ha consentito a Trump di ottenere in partenza quello a cui tiene di più: una “vittoria narrativa”, ad uso dei suoi elettori: li ho costretti ad ammetterlo, ci hanno sfruttato per anni. Ma ora basta: li farò pagare.
Se questo errore poteva e doveva essere evitato, altrettanto non può dirsi per i fattori strutturali che sono alla base della debolezza dell’Unione Europea nel confronto con l’Amministrazione americana. Non è certo colpa della Presidente Von Der Leyen se -in presenza della “minaccia di lungo periodo” (documento dell’ultimo vertice Nato) rappresentata dalla Russia di Putin per la sicurezza dell’intera Unione Europea- siamo sostanzialmente privi di capacità di deterrenza, malgrado la somma delle spese nazionali per la difesa dei Paesi europei non sfiguri a fronte di quella della Russia (che spende per il suo aggressivo apparato militare una percentuale di Pil decisamente maggiore, ma ha un Pil molto più piccolo). Né è per responsabilità prevalente dell’attuale Commissione Europea che abbiamo accumulato un così grave ritardo, rispetto agli USA, sul versante dello sviluppo delle tecnologie chiave. Un ritardo che costituisce -tanto più in presenza di un’Amministrazione americana che ha come obiettivo fondamentale quello di “estrarre” utilità dal resto del mondo, a partire dagli alleati europei- un secondo fattore di dipendenza strategica dagli USA.
Non c’è abilità diplomatica e accortezza tattica che possano rimuovere in breve tempo questi due fondamentali fattori di debolezza. Né possiamo cullarci nella speranza che Trump venga prima indebolito dall’esito delle elezioni di medio termine e poi sconfitto da un candidato democratico alle prossime elezioni presidenziali. Possiamo metterci in grado di valorizzare -nel confronto/scontro con l’Amministrazione Trump- i nostri punti di forza, che pure ci sono (l’Unione ha la credibilità e la forza necessarie per promuovere un vera e propria offensiva dell’approccio multilaterale al tema della regolazione del commercio mondiale). Ma senza acquisire rapidamente autonoma capacità di deterrenza e senza collocarci alla frontiera dell’innovazione tecnologica, con sistemi di ricerca e con “campioni europei“ per la produzione di beni e servizi, non sfuggiremo ad un destino di subordinazione. Anche se, come è auspicabile, l’Amministrazione Trump fosse sostituita da quella di un Presidente democratico: dopo una scossa come quella che sta sconvolgendo il mondo, non si torna al punto di partenza.
Per superare rapidamente le fonti della nostra debolezza, non possiamo muoverci con i tempi e le regole dell’attuale Unione: sia che si guardi alla costruzione del pilastro europeo della Nato; sia che si lavori all’effettiva capacità fiscale dell’Unione; sia che si intenda fare dell’Europa il principale protagonista di un nuovo sistema di regolazione del commercio, fondato sul multilateralismo, bisognerà agire stringendo accordi tra Paesi “volenterosi”. Con gli accordi di Londra tra Gran Bretagna, Francia e Germania qualcosa di molto importante ha cominciato a muoversi nella direzione giusta: sul terreno prioritario -quello della difesa- gli impegni assunti vanno ben al di là di quelli previsti dalla comune appartenenza alla Nato: l’alleanza unisce Paesi che hanno 100 milioni di abitanti in più della Russia, detengono due seggi nel Consiglio di sicurezza, hanno capacità di deterrenza nucleare e importanti capacità operative. Attorno a questo nucleo può prendere corpo il pilastro europeo della Nato (e l’Unione può cominciare a lenire la ferita della Brexit).
Il limite di questa cruciale iniziativa è rappresentato dall’assenza dell’Italia. Stavolta l’Italia non è stata messa fuori perché giudicata inutile. È diventata inutile perché si è messa fuori (Diotallevi, Il Foglio 26 luglio ), inseguendo l’aspirazione di Meloni ad una funzione di mediazione tra Trump e l’Europa che, semplicemente, non è tra le cose possibili (Trump persegue un obiettivo politico e geoeconomico. Non gli interessa il Governo di un Paese membro dell’Unione che costruisca le condizioni di un compromesso economico). Altrettanto vale per la costruzione della effettiva capacità fiscale dell’Unione. In un discorso a Bruxelles, il capo economista della BCE, Philip Lane, si è detto favorevole ad ampliare gli strumenti di debito comune, perché permetterebbero di rendere il mercato dei capitali più attraente per gli investitori (tutti gli investitori, quelli esterni alla Unione e quelli interni: non dobbiamo dimenticare il fiume di euro che ogni anno scorre dall’Europa verso gli USA, andando a finanziare investimenti e consumi americani). Anche in questo caso, potrebbe esserci spazio per l’emissione congiunta da parte di sottogruppi di Paesi membri nel contesto di possibili progetti di investimento condivisi di coalizione dei “volenterosi”.
In materia di politiche fiscali, il cosiddetto “accordo” USA-UE prevederebbe (secondo Trump; la versione europea è meno assertiva) l’eliminazione (per i Paesi europei che l’hanno adottata) e l’abbandono della web tax. Osservato che in materia l’accordo può avere valenza politica, ma non può creare vincoli giuridici -la Commissione ha competenza piena a trattare sulle regole commerciali, non sulle tasse da applicare o disapplicare-, l’occasione potrebbe essere colta per uscire dal piccolo cabotaggio e dalle mezze misure: un’imposta comune sulle società che tolga a tutte le imprese-europee o americane o di altra nazionalità- la possibilità di utilizzare a piene mani i paradisi fiscali che l’Unione tollera/coltiva al proprio interno. Come hanno osservato recentemente Tria e Scandizzo, questa scelta non si presenterebbe come uno strumento per alimentare il conflitto con gli USA di Trump, ma come una scelta -non sindacabile da altri Stati del mondo- di convergenza europea. Trump non avrebbe alcun diritto di lamentarsene, anzi: avrebbe ragione di considerare i vantaggi, indiretti ma consistenti, che potrebbero derivarne per il bilancio federale degli USA.
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