Chi decide cosa significa essere donna nelle competizioni sportive?

L’atleta sudafricana Mokgadi Caster Semenya, al centro di polemiche e di una controversia legale a partire dal 2018, quando è stata esclusa dalle gare per aver rifiutato trattamenti ormonali imposti dalla World Athletics alle atlete con alti livelli naturali di testosterone, ha ottenuto una sentenza in parte favorevole da parte della Corte europea dei diritti umani. La Cedu ha infatti riconosciuto che la sportiva non ha avuto un processo equo in Svizzera, condannando il paese a versarle 80mila euro. Tuttavia, la Corte europea ha anche dichiarato inammissibile la parte del suo ricorso che denunciava discriminazione e violazione della vita privata.
Le regole della Federazione internazionale dell’atletica leggera (World Athletics) le avevano impedito di gareggiare senza prima aver abbassato il proprio tasso di testosterone. Semenya aveva fatto ricorso contro queste regole nel 2019, perdendo la causa prima al Tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna (TAS) e poi alla Corte suprema svizzera. In entrambi i casi i tribunali svizzeri avevano ritenuto necessaria l’esistenza di tali regole per garantire competitività e concorrenza in ambito professionistico femminile.
Non si tratta di un caso isolato: nel mondo dello sport, l’idea di competizione equa si scontra sempre più spesso con la complessità della natura umana. L’iperandrogenismo - la condizione che interessa tanto Semenya quanto altre atlete come Dutee Chand - è caratterizzato da livelli elevati di ormoni androgeni, in particolare il testosterone, in donne assegnate tali alla nascita. La presenza di atlete che presentano queste caratteristiche ha acceso negli ultimi anni un intenso dibattito internazionale: si tratta solo di un vantaggio biologico, come tanti altri presenti nello sport, oppure di un'alterazione significativa che richiede regolamentazione?
La questione è tutt’altro che teorica: coinvolge atlete reali, con storie personali spesso segnate da discriminazione, lotte legali e decisioni mediche imposte.
Cos’è l’iperandrogenismoL’iperandrogenismo è una condizione medica che fa parte dei Disturbi della Differenziazione sessuale (DSD): “Gli atleti che hanno DSD (incluso l’iperandrogenismo ad esempio), presentano problematiche congenite fisiche legate nella maggior parte dei casi ad un livello eccessivo di testosterone. All’età dello sviluppo della pubertà cambia fisicamente il livello ormonale ma anche quello fisico, cioè si sviluppano gli organi maschili all’interno del corpo femminile”, ha spiegato a Luce l’avvocata Stella Riberti, esperta in diritto sportivo. Sebbene anche le donne producano naturalmente una piccola quantità di ormoni androgeni, nei casi di iperandrogenismo i livelli risultano significativamente più alti della media. Questa condizione può avere diverse cause: può essere legata a patologie come la sindrome dell’ovaio policistico (PCOS), ma può anche essere congenita e non patologica - cioè parte del naturale profilo ormonale di una persona perfettamente sana. È proprio quest’ultimo caso a trovarsi al centro del dibattito sportivo: alcune atlete, come Caster Semenya, possiedono livelli di testosterone naturalmente alti, senza aver mai fatto uso di sostanze vietate. Il nodo principale sta nel fatto che il testosterone ha effetti diretti sulle prestazioni fisiche: può aumentare la massa muscolare, la forza, la densità ossea e la capacità di recupero, caratteristiche che offrono potenzialmente un vantaggio competitivo nelle discipline atletiche. Tuttavia, non esiste un consenso unanime su quanto questi livelli ormonali incidano da soli sul successo sportivo, poiché molti altri fattori (allenamento, genetica, tecnica, strategia) contribuiscono al rendimento di un’atleta.
Le regole delle federazioniNel tentativo di garantire equità nelle competizioni femminili, diverse federazioni sportive internazionali hanno introdotto regole specifiche per le atlete con iperandrogenismo. Tra queste, la più discussa è quella della World Athletics, la federazione internazionale di atletica leggera, che ha imposto dei limiti ai livelli di testosterone ammessi per partecipare alle gare femminili. Secondo il regolamento introdotto nel 2018, le atlete con DSD che superano una soglia stabilita di testosterone (5 nanomoli per litro, poi abbassata a 2.5) non possono competere in alcune discipline – in particolare tra i 400 e i 1500 metri – a meno che non si sottopongano a trattamenti medici per abbassarne artificialmente i livelli. Questi trattamenti possono includere farmaci ormonali o interventi chirurgici, sollevando interrogativi etici e medici non trascurabili. “L’approccio invasivo è stato oggetto di contestazioni, dati i rischi e le conseguenze psico-fisiche derivanti da tale imposizione”, spiega Riberti. Le critiche riguardano anche la possibilità che queste regole siano discriminatorie e lesive dei diritti umani, in particolare del diritto all’integrità fisica e alla libertà di autodeterminazione. Le federazioni, però, difendono questi limiti come strumenti necessari per mantenere la parità competitiva tra le atlete, distinguendo tra i vantaggi naturali accettabili e quelli ritenuti eccessivi. Il dibattito resta aperto, anche perché non tutte le federazioni applicano le stesse regole. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO), ad esempio, ha adottato nel 2021 un nuovo quadro di riferimento più inclusivo, “sottolineando l’impossibilità di emanare un regolamento unitario che definisca criteri di ammissibilità validi per ogni sport e, pertanto, limitandosi ad indicare i principi ispiratori per ciascuna Federazione sulla base di un bilanciamento tra interessi opposti: da un lato l’inclusione, dall’altro la tutela della salute degli atleti e l’equità competitiva”, afferma l'avvocata.
Il dilemma sportivo: vantaggio naturale o disuguaglianza?Il cuore del dibattito sull’iperandrogenismo nello sport femminile è una domanda difficile e controversa: quando un vantaggio naturale smette di essere accettabile e diventa una forma di ingiustizia competitiva? Nel mondo dello sport, i vantaggi naturali sono ovunque. Ci sono atleti con una statura fuori dal comune, una capacità polmonare eccezionale, una predisposizione genetica alla velocità o alla resistenza. Nessuno mette in discussione la legittimità della loro partecipazione. Ma quando quel vantaggio ha a che fare con i livelli ormonali – in particolare con il testosterone – il discorso cambia, perché si entra in un terreno che tocca identità di genere, biologia e regolamenti sportivi.
Come detto, il testosterone è un ormone che può influire sulle prestazioni fisiche e le federazioni sportive sostengono che livelli elevati offrano un vantaggio tale da compromettere l’equità tra le atlete. Ma stabilire una soglia “giusta” è estremamente complesso, perché il rendimento sportivo dipende da una moltitudine di fattori - genetici, ambientali, psicologici e tecnici - che non possono essere ridotti a un singolo valore biologico.
Dall’altra parte, c’è chi vede nelle restrizioni imposte alle atlete iperandrogine una forma di discriminazione, che penalizza donne con caratteristiche naturali fuori norma, ma non per questo meno legittime. Costringerle a sottoporsi a trattamenti ormonali per gareggiare significa, secondo molti, negare loro il diritto di competere nella propria categoria di appartenenza, mettendo in discussione la loro identità e integrità fisica.
Etica, diritti e scienza: un equilibrio difficileSembra che la soluzione sarebbe bilanciare l’etica della competizione con il rispetto dei diritti individuali, senza ignorare i dati scientifici: un equilibrio difficile, che divide non solo l’opinione pubblica ma anche atleti, medici, giuristi e dirigenti sportivi. Dal punto di vista scientifico, il testosterone è riconosciuto come un fattore che può influenzare le prestazioni fisiche. Ma i dati non sono sempre chiari né unanimi: diversi studi hanno evidenziato che l’impatto del testosterone varia molto da persona a persona, e che non è possibile stabilire una soglia precisa oltre la quale un’atleta ha un vantaggio “scorretto”. La scienza, insomma, non offre certezze assolute, e spesso viene utilizzata per giustificare decisioni che rispondono più a logiche regolamentari o politiche che a evidenze inequivocabili.
Sul piano etico, le restrizioni imposte alle atlete iperandrogine sollevano interrogativi profondi. È giusto chiedere a una persona sana di modificare il proprio corpo per poter gareggiare? È legittimo chiederle di sottoporsi a trattamenti ormonali invasivi per rientrare in parametri artificiali? E soprattutto: chi decide cosa è “naturale” e cosa non lo è in un contesto competitivo? Dal punto di vista dei diritti umani, molte di queste regole sono state criticate per essere discriminatorie e per violare il diritto alla privacy, all’integrità fisica e all’autodeterminazione. Come in molti altri ambiti, i corpi che non "rientrano nella norma”, soprattutto quando si tratta di caratteristiche che mettono in dubbio il binarismo sessuale e di genere, vengono visti come un problema da risolvere.
In mezzo a queste tensioni, il mondo dello sport si trova oggi a un bivio: continuare a basarsi su categorie rigide e biologiche, oppure ripensare i criteri di partecipazione in chiave più inclusiva, tenendo conto delle diversità individuali senza sacrificare l’equità delle competizioni. Non esiste una soluzione semplice. Ma è sempre più evidente che qualsiasi scelta in materia di iperandrogenismo non può prescindere da un confronto serio tra scienza, diritti e valori fondamentali della convivenza sportiva e sociale.
Luce